A pochi giorni dalla Marcia per la vita promossa a Roma dai movimenti pro-life, a una settimana dal 40esimo anniversario dell’introduzione in Italia della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e dal referendum irlandese sull’aborto, la nostra capitale è stata tappezzata di manifesti propagandistici dell’associazione spagnola Citizen Go. Così sulla via Salaria, per esempio, troneggia ora un enorme cartellone con la scritta, lapidaria, che “l’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo”. Con tanto di hashtag #stopabortocome invito alla condivisione sui social.
A stupire non è tanto la presenza di una campagna anti-aborto, peraltro in linea con altre battaglie della stessa associazione come quelle relative ai casi Charlie Gard e Alfie Evans, quanto la brutalità con cui sono stati accostati due temi caldi e non direttamente collegati quali le interruzioni di gravidanza e la violenza sulle donne. La stessa Citizen Go, dalla propria pagina Facebook, è parsa voler mettere le mani avanti descrivendo lo slogan come “forte” e “provocatorio”, quasi a voler giustificare con la scusa del marketing e della viralità un messaggio che, tanto a prima vista quanto dopo un’analisi più attenta, è davvero difficile da difendere.
Al di là delle reazioni critiche multilaterali, arrivate già nelle prime ore dopo l’affissione, e della possibilità che i manifesti siano presto rimossi poiché lesivi delle libertà individuali, esiste un fondamento scientifico – o perlomeno statistico – nell’affermazione stampata a caratteri cubitali per le vie di Roma?
Anzitutto va detto che la morte di una donna in seguito a un’interruzione di gravidanza non è – ovviamente – conteggiata tra i casi di femminicidio, a parte semmai quei rari casi in cui l’aborto fa da motivo scatenante per un omicidio volontario o preterintenzionale.
La morte per complicanze medico-sanitarie, infatti, non ha nulla a che vedere con il concetto di femminicidio, che invece è un’uccisione deliberata di una donna per motivi basati sul genere e dovuta a un’ideologia patriarcale. Accostare il termine femminicidio con l’aborto, in altri termini, significa confondere una gravissima forma di prevaricazione subita da una donna con una libertà che l’ordinamento giuridico italiano riconosce da quattro decennni.
Se qualcuno pensasse che le donne a cui si fa riferimento con il termine femminicidio possano essere i feti femmina anziché le gestanti, non è questo il caso: Citizen Go ha spiegato chiaramente che il riferimento è alle donne-madri e non alle eventuali “bimbe soppresse”. Nemmeno la questione degli aborti selettivi, dunque, sembra essere chiamata in causa dalla campagna contro l’aborto. E c’è di più: l’associazione ha detto che considera come femminicidi anche le donne “uccise nella loro intimità psichica e fisica“, ossia include (non si sa secondo quali dati, visto che il tema è scientificamente controverso) anche tutte coloro che hanno sofferto di “traumi post-abortivi”non meglio specificati.
Immaginando che tutto ciò possa comunque avere una qualche consistenza logica, districandosi tra metafore, allusioni e discutibili accostamenti lessicali, proviamo a mettere un po’ d’ordine con qualche numero. Le stime globali sul numero di omicidi parlano di circa 66mila donne uccise ogni anno. Il numero di femminicidi è inferiore a questo dato, poiché devono essere escluse tutte le uccisioni non collegabili a una questione di genere. Per l’Italia, dove abbiamo a disposizione statistiche più accurate, si parla di circa 150 femminicidi all’anno, con variazioni annue di qualche punto percentuale.
Per quanto concerne gli aborti, invece, ogni anno nel mondo perdono la vita in seguito all’interruzione di gravidanza circa 70mila donne (68mila secondo il National Institute of Health), a cui si aggiungono quasi 5 milioni di donne che sviluppano disabilità temporanee o permanenti. Numeri così raccapriccianti trovano però spiegazione nelle angoscianti pratiche degli aborti clandestini eseguiti con tecniche frettolose o obsolete e in quelli praticati da personale non adeguatamente preparato, a cui sono da imputare la quasi totalità degli eventi avversi. Anche in questo caso la tesi di Citizen Go non regge, poiché non si può certo far rientrare nel dibattito sulla legge sull’aborto in Italia la questione delle operazioni chirurgiche fuorilegge, nonostante in taluni casi siano effettivamente associate a forme di abuso di genere. Si stima che globalmente quasi la metà degli aborti (20 milioni su 42 milioni all’anno) sia praticata senza le condizioni minime di sicurezza sanitaria, ma si tratta di una questione totalmente diversa rispetto alla legge 194, tanto che mescolare due argomenti così diversi pare del tutto illogico. A maggior ragione, le stime riferiscono che nei Paesi occidentali gli aborti insicuri sono relativamente pochi (circa il 3%), mentre nei Paesi in via di sviluppo la media è del 55%.
In ogni caso, anche un aborto praticato in Italia nelle strutture sanitarie certificate porta con sé una minima dose di rischio, ma gli episodi sfavorevoli rappresentano una rarità e sono riconducibili a circostanze eccezionali (come l’assenza di medici non obiettori). Se l’interruzione di gravidanza avviene entro 10 settimane dal concepimento, la mortalità è circa di un caso ogni oltre 200mila pazienti, ossia meno della metà rispetto a quella dovuta all’uso di antibiotici. Per l’Italia si parla ogni anno di un numero di aborti compreso tra 80mila e 90mila (erano 100mila nel 2012, e il trend è di progressiva diminuzione), quindi in media dovremmo assistere a meno di una morte all’anno. I numeri sono così bassi che non ci sono statistiche di riferimento, e ogni singolo caso di morte in seguito a un aborto entra nelle cronache dei giornali, come accadde per Valentina Milluzzo, deceduta a Catania nell’ottobre del 2016.
Per completezza, va poi aggiunto il dato della mortalità materna, che riguarda i decessi nei primi 42 giorni dopo il parto, dovuti soprattutto a trombo-embolie, disordini ipertensivi ed emorragie. Le stime a livello mondiale parlano di 140-180 madri morte ogni 100mila parti, mentre in Italia il numero di decessi scende nettamente a poco meno di 9, in linea con la media Europea (negli Stati Uniti il valore è di circa 14). Dato che nel nostro Paese nascono meno di mezzo milione di bambini all’anno, il dato annuale della mortalità materna è compreso tra 35 e 45. Tra il 2006 e il 2012, ad esempio, sono morte in tutto 229 neo-mamme. Globalmente, invece, il numero di nascite annue è di circa 140 milioni (considerando un tasso di natalità mondiale di 18 nascite all’anno ogni mille abitanti), dunque perdono la vita a causa del parto oltre 200mila madri.
Comunque lo si voglia intendere, il confronto tra morti per aborto e femminicidi non sta in piedi, a maggior ragione se parliamo della situazione europea e italiana. Abusare fuori contesto di un termine pregno di significato come femminicidio, poi, significa voler mettere in secondo piano le vere cause del problema, svuotandole di senso. Soprattutto se, a sproposito, con quella parola si vogliono inglobare pure i presunti traumi psicologici successivi a un’interruzione di gravidanza. E se anche concedessimo questa chiave di lettura, allora dovremmo includere nel conteggio tutte le sofferenze umane dovute al mancato riconoscimento di un diritto come quello all’aborto. Insomma, seguendo la folle logica di Citizen Go, dovremmo parlare di “femminicidio” e di “uccisione psichica” anche per una donna che volesse abortire ma alla quale la legge del proprio Paese non garantisse questa libertà.