La pandemia di COVID-19, o coronavirus, è stata spesso affrontata in queste ultime settimane ricorrendo alla metafora della guerra. Entro questa cornice il virus è un nemico, affrontarlo è uno sforzo bellico che coinvolge le nazioni a qualunque livello, dai leader ai cittadini, mentre medici e infermieri sono “in trincea” negli ospedali, elogiati da fuori come “eroi”.
«Siamo in guerra» è stato per esempio l’appello del Presidente francese Emmanuel Macron, il 16 marzo scorso, quando ha annunciato una serrata simile a quella italiana. «Dobbiamo agire come ogni governo in tempo di guerra, e fare qualunque cosa per sostenere la nostra economia»: così gli ha fatto eco Boris Johnson. Ultimo in ordine di tempo è stato Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, che per il Financial Times il 26 marzo ha pubblicato un articolo dal titolo “Siamo in guerra contro il coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza”.
Certo, la pandemia ha portato a dei cambiamenti radicali nei nostri stili di vita, e in tempi rapidissimi, imponendosi su ogni condizione pre-esistente. Pensate, nel quotidiano, a come si è modificato negli ultimi due mesi il rapporto con gli oggetti toccati (come soldi, o prodotti sugli scaffali dei supermercati) o con il contatto fisico; pensate alla progressiva perdita di spontaneità di gesti per noi istintivi. Ed è vero che alcune aziende si stanno riconvertendo, magari passando alla produzione di maschere sanitarie, come accade quando si è in economia di guerra. Così come è vero che le stime per il PIL non prevedono nulla di buono per i tempi a venire, intanto che dagli ospedali delle zone più esposte arrivano testimonianze drammatiche, prima impensabili.
Tuttavia il gergo militaresco e l’insistente visione bellica non aiutano ad affrontare l’emergenza da un punto di vista psicologico e cognitivo, e se non ci aiutano come individui di certo non ci aiutano come società. Come fa notare sul Guardian Simon Tisdall, il linguaggio bellico «divide infatti le comunità»:
Per ogni volontario che fornisce cibo agli anziani, ci sono legioni di consumatori nel panico che razziano i supermercati nel tentativo stupido di anticipare il razionamento da “tempi di guerra”. Nelle campagne francesi, cartelli avvertono i parigini in fuga di andare altrove – un inquietante eco di quanto accadde durante l’occupazione nazista.
Su Internazionale, invece, Daniele Cassandro sottolinea come la metafora sia «rischiosa», perché «parlare di guerra, d’invasione e di eroismo, con un lessico bellico ancora ottocentesco, ci allontana dall’idea di unità e condivisione di obiettivi che ci permetterà di uscirne.» Mentre Laura Silvia Battaglia, giornalista che ha lavorato in zone di conflitto in Medio Oriente, è ancora più esplicita:
Oggi un medico lombardo, esattamente il presidente dell’Ordine, ha detto:
-Basta con questa metafore dell’eroe, non sono un militare in Afghanistan sotto le bombe, faccio solo il mio lavoro e voglio essere messo nella condizione di farlo-. Basta con queste metafore guerresche, ancora non capite che ve le mettono sul piatto per alimentare nell’opinione pubblica il desiderio di un ordine sociale differente da quello in cui siamo vissuti, militarizzato e controllato.
Da leggere anche Barbara Schiavulli, corrispondente di guerra che su Radio Bullets scrive:
Ogni volta che dal divano guardo il soffitto di casa e so che non mi crollerà addosso, so anche che non è una guerra. Ogni volta che apro l’acqua e mi esce copiosa e calda, so che non è una guerra. Si può anche aver paura di essere contagiati, ci si può sentire soli e impotenti, ma non è una guerra dove si rischia di essere stuprate o sgozzati.
La guerra è uno stato di eccezionalità che incide sul tessuto democratico: il bisogno di sicurezza e la volontà di trionfo sul nemico ci rendono più disponibili ad accettare compromessi al ribasso sui diritti. In Gran Bretagna, dove la dichiarazione di guerra al COVID-19 ha spezzato una condotta fino ad allora incerta e ambigua, si è arrivati ad approvare leggi speciali che conferiscono enormi poteri al governo, sebbene per due anni. Parliamo dello stesso governo il cui leader, fino a qualche settimana prima, raccontava di aver stretto tranquillamente la mano ai malati di coronavirus, come a stemperare il rischio di psicosi di massa.
In Ungheria, invece, il governo ha proposto una legislazione d’emergenza la cui antidemocraticità, tra gli altri, è stata denunciata da Human Rights Watch come un tentativo di sfruttare la pandemia per guadagnare un potere senza limiti. Se dovesse passare, l’esecutivo si troverebbe di fatto a esautorare del tutto il Parlamento, sospendendo elezioni e referendum. Nel frattempo le città in quarantena iniziano a essere solcate da droni che ci riprendono mentre corriamo da soli troppo lontani da casa, o troppo vicini alle persone. Oppure, come annunciato dal sindaco di Messina, i droni hanno la voce del primo cittadino e intimano di andare a casa. Una corsa alla sorveglianza che da noi, almeno per ora, sembra si sia arrestata sulle disposizioni del Viminale, che ha sospeso l’utilizzo dei droni da parte della polizia locale.
In guerra per fronteggiare il nemico bisogna serrare i ranghi, le proprie fila, e nulla disgusta più del sedizioso o del collaborazionista. Ecco perciò che la guerra al COVID-19 ha scovato tra le tipologie di nemici interni chi corre nei parchi. Il “runner”, termine inglese che ammanta di esotico mistero il semplice uscire di casa una mezz’ora, o forse più, per sfuggire al logorio dell’isolamento totale in casa.
Può succedere che un’azienda svolga esercitazioni anti-incendio, o anti-terremoto, ma nessun paese simula periodi di quarantena per addestrare i cittadini a fronteggiare il pericolo di una pandemia. Non è qualcosa che si innesta nei cervelli non appena è decretato dall’alto, specie quando la comunicazione attorno al fenomeno è tutt’altro che chiara e comprensibile. La quarantena è anzi un mutamento radicale nel modo di vivere la dimensione relazionale, dall’intimità del focolare domestico fino alla sfera lavorativa; può entrare di forza in contesti difficili, come per persone che soffrono di depressione, o ansia, o nelle famiglie dove gli abusi sono all’ordine del giorno. Perciò la possibilità di uscire, fermo restando l’imperativo del distanziamento sociale, è tutto fuorché un lusso.
Eppure abbiamo assistito a una vera e propria caccia all’untore, come se ogni cittadino, nella guerra contro il coronavirus, fosse un soldato veterano cui non è concessa nemmeno mezz’ora di congedo dal fronte. E il collaborazionista tipico, l’untore malefico, è stato soprattutto incarnato da persone in tuta e scarpe da ginnastica. O da chi va a fare una spesa reputata inutile. Così Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, mostra il volto da padre severo contro chi fa jogging, con la minaccia di una visita in terapia intensiva al posto degli scapaccioni: «Sono pronto ad accompagnare chi dice di non poter rinunciare a fare jogging in uno dei nostri reparti di terapia intensiva, e tutto gli sarà più chiaro.» Mentre il sindaco di Cagliari, Paolo Truzzu, fa affiggere dei manifesti «forti» per avvertire i disertori delle conseguenze, con messaggi come «Quando hanno intubato mio padre ho ripensato a quella passeggiata che dovevo evitare», «Quando hanno portato mia madre in ospedale, ho capito che dovevo rinunciare alla corsa».
Delirante invece il sipario di una trasmissione come L’aria che tira, dove uno sconsolato Carmelo Schininà si aggira vari minuti per Milano in attesa di documentare le violazioni della quarantena, finché non incontra quasi per fortuna una coppia di fidanzati untori da esporre ai moniti in studio di Gaia Tortora. Il tutto mentre l’inviato regge il microfono e si mette e toglie la mascherina di continuo.
Mentre il Comune di Roma, dopo il blitz mediatico anti-assembramento che ha visto insieme Barbara D’Urso e la sindaca Virginia Raggi, ha lanciato un servizio di segnalazione. Alla fine, in un rimpallo tra comuni che chiudono parchi e giardini pubblici, come a Firenze, Milano e Bologna, si è arrivati alla decisione del governo di fare altrettanto sul territorio nazionale. Non sfugga la schizofrenia di città come Firenze e Milano, dove i sindaci sono passati da inviti a non fermarsi o a visitare musei alla richiesta di inasprire serrate e controlli.
Questa sproporzione tra immaginario da caccia all’untore e realtà si nota ancora di più guardando i dati forniti dal Viminale e la loro copertura. Commentando, ad esempio, quelli della settimana tra l’11 e il 18 marzo, Repubblica titola “Coronavirus, Viminale: ‘Denunciati quasi 8mila, il 13,5 % in più in due giorni’”. Messa così sembra di essere di fronte a un improvviso e preoccupante incremento. Ma se si scorre l’articolo si vede come, nella settimana di riferimento, le denunce riguardino, al massimo, meno del 7% dei controllati, tra cittadini ed esercizi commerciali, con una media giornaliera che sta quasi sempre sotto il 4,5%.
Dato che non si discosta di molto da quelli elaborati da YouTrend nel periodo dall’11 al 24 marzo. Insomma, la piaga dei potenziali untori riguardarebbe meno del 10% della popolazione controllata, a stare larghi. Perché questa comunicazione allarmistica senza contesto? Casomai andrebbe posta l’attenzione sull’impossibilità di fermare il tessuto produttivo in aree come la Lombardia, complice la forte contrarietà di Confindustria, che a fine febbraio lanciava (ironia della sorte) a Bergamo la campagna #Bergamoisrunning. O sul costringere le persone ad ammassarsi in treni e linee della metropolitana per andare al lavoro, coi vagoni che diventano per forza di cose delle bombe epidemiologiche perché le persone non possono evitare il rischio di contagio.
Se prima della pandemia eravamo bloccati in una concezione della vita pubblica militarizzata, tra fazioni e bisogno di nemici, ora questa visione bellica si sta ritorcendo contro di noi. Ora lo schema non regge, perché la realtà ha semplicemente acquistato una forza d’urto tale da sbugiardare la propaganda nelle corsie d’ospedale, ed è per pura inerzia che continuiamo comunque a inseguire il bisogno di capri espiatori, a coltivare le superstizioni spettacolari che dovrebbero esorcizzare ai nostri occhi il male. Solo che, a furia d’indicare streghe e di invocare rabbiosi la caccia contro di loro, prima o poi si arriva ai roghi per decreto.
Ma proprio perché la pandemia rende più evidente che «ci sono sulla terra flagelli e vittime», come scriveva Albert Camus ne La peste, «bisogna per quanto è possibile rifiutarsi di essere col flagello», bisogna «non consentire all’assassinio», e riscoprire in noi lo spirito da veri medici, il concetto di cura in ogni gesto. Ed è per questo che dobbiamo abbandonare l’idea che quella al coronavirus sia una guerra, qualcosa basato su impeto, forza, produzione e dispiegamento di mezzi tesi ad annientare. Un virus, come nemico, non concede l’onore delle armi, né si siederà mai a un tavolo per trattare. Fuori da qualunque metafora, medici e infermieri hanno il diritto di lavorare in condizioni di sicurezza, senza dover diventare eroi. Bisogna piuttosto iniziare a ripensare radicalmente i rapporti – sociali, lavorativi, economici, politici – e capire, una buona volta per tutte, che non sarà il thatcheriano «Non esiste una cosa chiamata società» a salvarci. Proprio ora che il virus ci impone distanza, rapporti mediati dobbiamo riscoprire il concetto di società e, soprattutto, i valori sui cui la si vuole fondare. Se produrre significa esporre al contagio, allora c’è bisogno di ripensare il lavoro, persino superarlo. Se il lavoro permette di sopravvivere attraverso il salario, allora c’è da superare il concetto di salario. Ma se invece, come collettività, in un momento così critico, riusciamo a vederci solo come esercito, come reparti che devono obbedire a una catena di comando e come alleanze militari dal punto di vista sovranazionale, allora conosceremo la sconfitta, e sarà paragonabile a un gigantesco cane che si divora a partire dalla coda.