Oggi dobbiamo ricordare. Ma cosa, e come? È sufficiente istituire una pur doverosa Giornata della Memoria per commemorare quel 27 gennaio del 1945, giorno in cui, ormai 68 anni fa, l’Armata Rossa abbatté i cancelli di Auschwitz e il mondo conobbe per la prima volta, fin nei più indicibili dettagli, l’orrore dei lager nazisti?
«La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura si accrescono, incorporando lineamenti estranei […]. Questa scarsa affidabilità dei nostri ricordi sarà spiegata in modo soddisfacente solo quando sapremo in quale linguaggio, in quale alfabeto essi sono scritti, su quale materiale, con quale penna: a tutt’oggi, è questa una meta da cui siamo lontani».
Così mette in guardia Primo Levi, al principio del primo capitolo – dal titolo La memoria dell’offesa -, nel suo libro I sommersi e i salvati, scritto nel 1986, a più di quaranta anni di distanza dalla sua esperienza nel lager di Auschwitz. Con toni pacati ma sguardo fermo, Levi ha scrutato i recessi più purulenti della «banalità del male», mostrandone il suo volto familiare, qualunque, camuffato da normalità e dovere. Timido testimone dell’orrore, egli ci ammonisce che no, commemorare istituzionalmente la Shoa non è sufficiente. «Anche in condizioni normali – infatti – è all’opera una lenta degradazione, un offuscamento dei contorni, un oblio per così dire fisiologico, a cui pochi ricordi resistono. È probabile che si possa riconoscere qui una delle grandi forze della natura, quella stessa che degrada l’ordine in disordine, la giovinezza in vecchiaia, e spegne la vita nella morte. È certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese».
È sempre in altri tempi e in altri luoghi che si verificano i fatti più atroci, mai qui, mai ora. La nostra sensibilità è dotata di una vista siffatta che non sempre riesce a mettere a fuoco quel che è troppo vicino. Tenendo gli occhi fissi su quel punto lontano, scrutandolo e indagandolo, e avvertendo i brividi dell’orrore che fu, perdiamo di vista i segni che l’oggi ci manda, e lo scricchiolio delle pareti di casa nostra. Eppure, è oggi, è in questo particolare frangente storico che ripercorrere le faticose pagine dei libri di Levi e ascoltare il suo monito appare indispensabile, forse salvifico. Solo così si può sperare di allontanare la iattura di una tragica profezia: «Si affaccia all’età adulta [ricordiamo che il testo riportato è del 1986, ndr] una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge. Per noi, parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa; incredibilmente, è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguisse un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; come ho accennato più sopra, è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, “utile” o “inutile”, è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo e il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo».
La commemorazione della Shoah e di tutti gli eccidi compiuti nel furore di una pretesa superiorità identitaria ha troppo spesso la parvenza scialba del dovere e il gusto insipido di un avvenimento lontano, cristallizzato in un’epoca remota e irripetibile. Sappiamo dov’è Auschwitz e cosa accadde dentro quei recinti di filo spinato: non può mai più ripetersi. Levi però capovolge completamente questo rassicurante teorema e afferma: è già accaduto, quindi può accadere ancora. Auschwitz infatti non è un luogo fisico o un capitolo su un libro di storia. Auschwitz è una categoria mentale: la categoria della sopraffazione, dell’illegalità accettata, sostenuta o elevata a sistema, della tolleranza della limitazione delle libertà personali per comodo, dell’indifferenza di fronte alla negazione dei diritti delle minoranze di qualunque genere, dell’insensibilità davanti al dolore di un altro che “non è dei nostri”.
Tanto io non posso farci niente: ecco dove (ri)comincia Auschwitz. Ecco quel che dobbiamo ricordare.
Alessandra Maiorino – Cronache Laiche