Sono ben 30.178 le specie di animali e piante che potrebbero scomparire nel breve termine. Rischiano l’estinzione il 41% degli anfibi, il 25% dei mammiferi e il 13% degli uccelli valutati. Ma anche il 34% delle specie di conifere e il 33% dei coralli che formano le barriere coralline. Sono questi i numeri ufficiali comunicati dall’unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN). Fondata nel 1948, la IUCN rappresenta la più autorevole organizzazione non governativa nel campo della tutela ambientale: conta circa 15.000 esperti e più di 1300 membri, inclusi Stati, agenzie governative e Ong.
Lo scorso 10 dicembre, in concomitanza con la conferenza sul clima di Madrid (COP25), ha annunciato l’ultimo aggiornamento delle liste rosse, il database che riporta la valutazione dello stato di conservazione delle specie animali e vegetali utilizzando rigorosi criteri scientifici. Con l’ultimo aggiornamento, il database comprende la valutazione dello stato di conservazione di 112.432 specie, il 27% delle quali è a rischio di estinzione.
Gli effetti dei cambiamenti climatici
Le cause di declino delle specie sono strettamente legate alle attività antropiche: tra queste, la perdita di habitat naturali dovuta alla deforestazione e all’urbanizzazione, l’introduzione di specie aliene invasive e la persecuzione diretta.
Crescono anche le prove dell’effetto negativo dei cambiamenti climatici che contribuiscono alla modificazione delle condizioni ambientali e provocano eventi metereologici estremi. Il 37% dei pesci d’acqua dolce in Australia rischia l’estinzione, e di questi il 58% è direttamente influenzato dai cambiamenti climatici, in particolare l’aumento delle temperature e la diminuzione delle precipitazioni che portano al prosciugamento dei corsi d’acqua.
L’innalzamento delle temperature oceaniche minaccia la sopravvivenza dei coralli, provocando il fenomeno dello sbiancamento. La scomparsa dei coralli ha delle ripercussioni a catena sulle altre specie che dipendono dall’ecosistema creato dalle barriere coralline. Ad esempio, lo squalo nutrice coda corta, che vive nelle acque tropicali dell’Oceano indiano, un tempo specie “vulnerabile” secondo i criteri IUCN, è ora “in pericolo critico”, avendo subito una diminuzione dell’80% in 30 anni. Ma anche le specie che vivono sulla terra ferma sono minacciate dal cambiamento delle condizioni climatiche. Ad esempio, l’amazzone imperiale, pappagallo simbolo della Dominica, è stato letteralmente decimato dall’uragano Maria che ha avuto un impatto devastante sull’isola. Al momento, si stima esistano in natura meno di 50 amazzoni.
Il sistema di classificazione delle liste rosse permette di valutare se nel tempo una specie modifica il suo stato di conservazione, con cambiamenti in negativo o in positivo. Sono 73 le specie che nell’ultimo aggiornamento hanno peggiorato il loro status, e otto le specie di uccello che sono ormai dichiarate estinte. Tra queste l’ara di Spix, una specie di pappagallo dall’elegante piumaggio azzurro, protagonista di “Rio”, il film di animazione del 2011, che un tempo popolava le foreste brasiliane. Cause dell’estinzione lo sfruttamento commerciale delle foreste e la cattura di questi pappagalli per il commercio come animali da compagnia. Oltre all’ara di Spix si sono estinte almeno altre 4 specie ornitiche brasiliane, incluso il Glaucidium mooreorum, un piccolo gufo alto circa 15 centimetri. La deforestazione sta provocando un rapido declino anche del colobo rosso orientale, un piccolo primate che vive solo nelle foreste a ridosso del fiume Tana, in Kenya.
Storie di ripresa
Per fortuna ci sono anche segnali positivi, sebbene il loro numero sia ancora molto esiguo. In tutto sono dieci i casi in cui si è riusciti a invertire una tendenza negativa, arrestando il declino delle popolazioni o evitandone l’estinzione. Il rallo di Guam è un uccello grosso più o meno come una gallina e incapace di volare, endemico dell’omonima isola del Pacifico. Un tempo abbondante nelle praterie e arbusteti, il rallo ha iniziato a diminuire drasticamente dagli anni ’70. Tra le cause, l’introduzione per causa umana di ratti, gatti domestici e del serpente bruno arboricolo, un rettile originario della Papua Nuova Guinea. Si tratta di quelle che tecnicamente vengono definite “specie aliene invasive”, una delle principali minacce per la biodiversità: specie trasportate dall’uomo in modo volontario o accidentale al di fuori della loro area d’origine, e che una volta giunte in una nuova area vi si insediano con successo causando gravi danni alle specie e agli ecosistemi presenti.
Nel 1987 il rallo di Guam è stato dichiarato “estinto in natura”. Alcuni individui però, sono stati fatti riprodurre in cattività, e reintrodotti in natura nel 2016 dopo aver eradicato i potenziali predatori. E, in una piccola porzione dell’isola, la popolazione reintrodotta ha cominciato a dare segni di ripresa. Oggi, il rallo di Guam è ancora a rischio di estinzione, ma non è più considerato estinto in natura, grazie all’adozione di misure di conservazione vincenti.
È invece fuori pericolo il parrocchetto delle Mauritius, ultimo superstite delle specie di pappagalli delle isole Mascarene, che è passato dall’orlo dell’estinzione a una popolazione che conta più di 700 individui. Anche in questo caso i programmi di riproduzione in cattività, l’utilizzo di nidi artificiali, e il contrasto alle cause di minaccia hanno giocato un ruolo fondamentale per la salvaguardia della specie.
La storia del rallo di Guam e del parrocchetto delle Mauritius rappresentano “un barlume di speranza nel mezzo dell’attuale crisi della biodiversità”, secondo Grethel Aguilar, direttrice generale della IUCN. “Il risultato positivo di alcune azioni di conservazione dimostra che quando i governi, le organizzazioni per la conservazione e le comunità locali lavorano insieme si può invertire l’attuale trend di perdita di biodiversità” afferma Jane Smart, direttrice del Biodiversity Conservation Group della IUCN.
La IUCN ha l’obiettivo ambizioso di ampliare il database delle liste rosse raggiungendo 160.000 specie entro giugno 2020, nel corso del quale si terrà il congresso mondiale dell’organizzazione. Scopo del congresso sarà individuare le priorità per la conservazione delle specie per dare un chiaro indirizzo alle future scelte politiche.
Nell’ottobre 2020 si riuniranno invece in Cina i governi dei Paesi che hanno aderito alla Convenzione sulla biodiversità (Convention on biological diversity, CBD). Uno degli obiettivi per il 2020 della CBD, il target 12, afferma infatti che “entro il 2020 l’estinzione delle specie minacciate conosciute è stato prevenuto e il loro status di conservazione, particolarmente di quelli maggiormente in declino, è stato migliorato e sostenuto”.
Di quanto siamo lontani da questi obiettivi ne è prova anche il fallimento degli accordi sul clima della COP25. Eppure, come dice Aguilar, le dieci specie che hanno migliorato il loro stato di conservazione “dimostrano che la natura può ristabilirsi, se le si dà almeno una mezza possibilità di farlo”.
Laura Scillitani – Articolo originariamente pubblicato su Scienza in Rete