L’episodio accaduto nei giorni scorsi al Centro di Procreazione medicalmente assistita (Pma) dell’Ospedale San Filippo Neri di Roma, in cui per un guasto dell’impianto di crioconservazione sono andari distrutti 94 embrioni, 130 ovociti e 6 campioni di liquido seminale, apre nuovamente le porte a una riflessione sulla legge 40sulla fecondazione assistita o ciò che ne rimane. Senza nulla togliere, ovviamente, a quelle coppie oggi disperate che riponevano in quegli embrioni la loro unica speranza di diventare genitori. Nessuna indagine e accertamento di responsabilità sull’accaduto ridarà loro, soprattutto alle donne, il calvario fisico e psicologico che hanno subito per aspirare a essere genitori.
Ma torniamo alla legge. La Consulta l’ha abbattuta pezzo a pezzo, dichiarando incostituzionale il divieto di produzione e successivo impianto contemporaneo di tre embrioni per volta e di conseguenza l’impedimento a congelare gli embrioni in eccesso. In piedi, quindi, sono rimasti il veto alla fecondazione eterologa (in natura tutt’altro che infrequente), quello alla diagnosi preimpianto (invece possibile a gravidanza accertata, il che porta all’assurdo che si possa ricorrere all’aborto terapeutico dopo l’impianto ma non scegliere prima) e quello alla distruzione o donazione alla ricerca degli embrioni in sovrannumero. La Consulta si dovrebbe pronunciare, il 22 maggio prossimo, anche sull’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa, e la speranza è che un altro pezzo di questa legge medioevale, con buona pace dell’ex sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella, venga abbattuto.
Rimangono, però, ammesso che la Corte costituzionale rigetti anche questo paletto, due aspetti abbastanza inquietanti. Il primo è quello degli embrioni “in avanzo”, che devono essere mantenuti in eterno (o fino a un altro guasto tecnico?) a spese dello Stato, ossia di tutti, in sofisticati apparati per la crioconservazione anche se nessuno ne chiederà mai l’impianto. Un danno economico da una parte e una sottrazione di prezioso materiale per la ricerca scientifica dall’altro.
Il secondo, che pare irrilevante ma non lo è affatto, è l’aspetto lessicale. Della legge 40, alla fine, resterà la terminologia. E così la fecondazione medicalmente assistita in Italia si chiama procreazione, a sottolineare che il processo biologico che genera la vita umana ha una connotazione sacra. Tant’è che i centri deputati si chiamano, appunto, centri per la Procreazione medicalmente assistita. Gli embrioni in sovrannumero, invece, ossia quelli per i quali la coppia rinuncia all’impianto o che sono stati generati precedentemente al 2004, anno di entrata in vigore della legge, vengono definiti abbandonati. E infatti era stata creata per conservarli la Biobanca di Milano (costo iniziale circa 700mila euro ai quali si aggiungono altri 80mila l’anno per la manutenzione) mai utilizzata e ora destinata a rimanere vuoto monumento giacché le nuove linee guida per la legge 40, redatte nel novembre scorso da Eugenia Roccella nonostante il suo governo fosse già dimissionario, delegano alle Regioni – oneri economici inclusi – la loro gestione. Ma quel termine, abbandonati, rimane. Come se si trattasse di bambini. Tant’è che alla fine del 2011 la Commissione Affari sociali della Camera ha approvato il testo base della proposta di legge avanzata dal deputato Idv Giuseppe Palagiano sull’”adozione degli embrioni”. Che sarebbe un’adozione a tutti gli effetti, visto che la richiesta deve essere inoltrata da coppie coniugate o conviventi (eterosessuali, s’intende) da almeno due anni al Tribunale dei minori. Ma basta leggere due righe della dichiarazione del promotore per farsi un’idea da brivido: «Un progetto di vita che si contrappone ad una morte certa, nel freddo e nel buio di una tanica di metallo».
Ecco, alla fine rimarrà questo della legge 40. L’idea della sacralità della vita, la pari dignità tra embrioni e bambini. Il linguaggio è importante perché non si limita a descrivere la realtà, ma la crea. Parole come amore o amicizia, ad esempio, suggellano un sentimento, gli danno corpo ed esistenza. Creano, cioè, un fatto, caratterizzano una relazione e la classificano all’interno di un senso comune mai scritto ma ritenuto regola implicita e condivisa. Dal semplice aggettivo abbandonato, riferito a un embrione, scaturiscono regole per l’adozione, quando sarebbe più corretto parlare di embrione in sovrannumero e richiesta di impianto. Così come dalla fecondazione che diventa procreazione, perdendo la sua connotazione biologica per assumerne una sacra, nascono paletti su paletti per la tutela dell’embrione a scapito di quella, prioritaria, della salute della donna.
Le parole hanno la capacità di costruire realtà che diventano parte del nostro bagaglio culturale. Un bagaglio che va al di là della legge 40 e ci resterà nel Dna anche quando la Corte costituzionale ne avrà abbattuto l’ultimo veto.