Marco (nome di fantasia) è un bambino come tanti, nato da genitori cattolici che di comune accordo lo educano all’osservanza della loro religione. Qualche tempo dopo i due si separano e la madre cambia credo divenendo testimone di Geova. Nasce così un conflitto “educativo”; Marco viene affidato in secondo grado alla madre purché questa si impegni a non coinvolgerlo nel suo nuovo culto e a farlo stare con il padre a Natale, Pasqua e il giorno del suo compleanno, ricorrenze che i seguaci di Geova non riconoscono. La donna fa ricorso in Cassazione denunciando di essere discriminata rispetto all’ex marito in virtù della sua religione, ma la Suprema corte (sentenza 9546/2012) lo respinge. Tra le motivazioni, la rilevazione dei periti secondo i quali Marco viveva «l’angoscia di arrivare al Giudizio senza peccato per poter rinascere nel nuovo regno e di pensare il padre escluso da questa possibilità di salvezza». Il bambino va educato in continuità con il passato e preservato da forme di indottrinamento che gli facciano percepire la «figura divina in termini solo persecutori e punitivi, fonte di ansia e angoscia anziché di rassicurazione».
La prima reazione alla sentenza è di sollievo per Marco, che non dovrà più subire i visionari condizionamenti degli adepti al culto di Geova, setta che forse più di ogni altra dell’alveo cristiano si fonda su un’ortodossia pura a principi che in una società occidentale sembrano folli (basti solo pensare al veto per le trasfusioni di sangue o, appunto, per i festeggiamenti). Ma poi, guardando i nudi fatti senza entrare nel distinguo tra religione “buona” e religione “cattiva”, la vicenda assume contorni sconcertanti. Primo, perché per salvare la figura del padre agli occhi di Marco si demonizza per diretta conseguenza quella della madre, di credo differente. Se la religione che la Cassazione impone a Marco è quella cattolica, va da sé che la Chiesa dica il vero e i Testimoni di Geova il falso, senza possibilità di mediazione. Secondo, perché si decide per sentenza la religione che un bambino deve abbracciare se figlio di separati di culti differenti. Viene da chiedersi cosa succederebbe nel caso di padre ateo e madre cattolica, o di padre musulmano e madre valdese, per esempio. Possiamo ipotizzare che verrebbe sempre preferita una religione di matrice cristiana sulla base di una presunta “cultura dominante”?
Terzo, e forse è il punto più scottante e il più sommerso – ma la sentenza lo fa emergere con limpidezza -, è il diritto dei genitori di indottrinare “precocemente” i loro figli, contro il quale la Cassazione sembra, almeno apparentemente, scagliarsi. La suprema Corte ha preferito un indottrinamento a un altro, forse scegliendo il male minore per Marco, ma ciò non toglie che sempre di indottrinamento si tratti. Quello cattolico è più soft, sembra più sfumato, ma solo perché la pletora dei cattolici italiani passa dal fedele faidaté (quello che blandamente “crede in dio” e per il resto se ne frega) al fondamentalista misogino, omofobo, illiberale che si batte affinché i valori etici della Chiesa divengano legge dello Stato italiano. Non solo: il cattolicesimo si nutre di pedoindottrinamento e grazie a questo sopravvive. Si parte dalla nascita con il battesimo a porre il primo marchio e si prosegue con la somministrazione di catechismo e sacramenti in un’età in cui non si ha alcuna consapevolezza per poter scegliere. A colpi di peccato e sensi di colpa la Chiesa tiene legate a sé menti immature, forgiandole in modo tale che una volta adulte, con ottima probabilità, non abbandonino il guscio culturale in cui il loro pensiero si è formato. Con il rischio che diventino un Giovanardi o una Roccella o persino, se meno eruditi, un Cassano, a spacciare intolleranza e discriminazione come Verità assoluta.