Lo scorso 11 ottobre è caduto il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II: un evento ricordato in doverosa sordina sia da Ratzinger, che ha sempre lavorato per ridurlo a una «novità nella continuità» da far dimenticare quanto prima; sia dai media che su quanto riguarda il mondo cattolico usano fanfara o silenziatore a seconda di come il papa comanda.
Una rondine che non fa primavera
Così a commemorare il Vaticano II sono stati solo quei cattolici progressisti che videro e continuano a vedere nel movimento conciliare l’inizio di un rinnovamento irreversibile della Chiesa.
Si tratta peraltro di una visione animata da buone intenzioni ma distorta perché il “rinnovamento” avviato allora fu un’aspirazione destinata a restare tale, senza tramutarsi in realtà. Il fallimento del pontificato di Pio XII e la forte domanda di cambiamento della base cattolica spinsero infatti la Chiesa a mutare il suo atteggiamento e ad aprirsi al dialogo con il mondo moderno. Ma ciò non si tradusse, o solo in minima parte, in un mutamento della pratica e della dottrina.
L’enciclica simbolo di quegli anni, la Pacem in terris, ribadì la vocazione teocratica della Chiesa, affermando il suo diritto a orientare le scelte politiche dei cattolici e il dovere dello stato di favorire il bene «ultraterreno» dei cittadini. Il Concilio confermò l’inerranza della Bibbia, in quanto ispirata da Dio, nell’interpretazione che ne dà la Chiesa. Anche la riconosciuta parità della donna si arenò di fronte all’ipotesi seccamente respinta del sacerdozio femminile. Il tentativo di innovare la morale sessuale si limitò a riconoscere valore al piacere sessuale ma soltanto nel matrimonio e ove non sia disgiunto dalla finalità procreativa, quindi col divieto assoluto dei contraccettivi. Uniche novità la condanna della guerra (ma non di quella «giusta»), la revoca dell’antisemitismo e il riconoscimento della libertà di coscienza (oggi già rimesso in forse).
Aspettando Godot
Troppo poco e per troppo poco tempo. Questo timido tentativo di rinnovamento durò infatti appena una manciata di mesi su diciassette-diciotto secoli in cui la Chiesa fu intollerante, fondamentalista e reazionaria come seguitò ad essere, prima ancora di cominciare a cambiare, a concilio appena finito, con le sortite di Paolo VI contro la pillola e contro la teologia della liberazione o sull’attualità del diavolo. E dopo, in modo definitivo, con Wojtyla e Ratzinger, che segnano non l’eccezione ma la regola, il ritorno alla normalità vigente dal Concilio di Nicea del 325 ad oggi.
Coltivare il mito del Vaticano II, senza avvertirne questo carattere effimero e illusorio, seguitare a vagheggiare un cattolicesimo “altro”, libero da dogmi ingombranti e impresentabili, fino a ritenerlo imminente o addirittura reale, assolve solo alla funzione consolatoria di rendere possibile restare dentro la vecchia Chiesa dogmatica dicendosi che è cambiata. O che, prima o poi, cambierà.
Walter Peruzzi – Cronache Laiche