Sperimentazione animale, proviamo a discuterne laicamente

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Ci sono arrivate diverse sollecitazioni a discutere della questione animalista, in particolare sullo spinoso argomento vivisezione.

Recenti campagne animaliste hanno riportato sotto i riflettori la questione con ampia risonanza sui mass media (vedi caso del canile di Green Hill), con grande partecipazione del pubblico ma purtroppo fornendo, come quasi sempre accade in Italia, informazioni parziali e volte più a sollecitare l’animo sensibile che non la ragione.

Quando si parla di vivisezione gli argomenti degli animalisti sono di tue tipi: etici (la vivisezione è moralmente ingiusta perché fa soffrire gli animali) e scientifici (la vivisezione è inutile perché i dati sugli animali non corrispondono a quelli sull’uomo).

Soffermiamoci su quest’ultimi.

L’argomentazione che la vivisezione sia inutile non è nuova ma ultimamente si è intensificata con la diffusione di mail e articoli con dieci domande a cui i ricercatori non sarebbero in grado di rispondere (un po’ sulla falsa riga delle famose dieci domande a Berlusconi de la Repubblica).

In realtà basta informarsi per vedere che queste dieci domande non solo hanno avuto una risposta ma che è anche pubblicata sul sito di uno dei più prestigiosi istituti di ricerca italiani, il Mario Negri. In calce all’articolo riporteremo dettagliatamente domande e risposte. 

 Insomma le argomentazioni tecniche degli animalisti hanno ricevuto una risposta dalla comunità scientifica, la sperimentazione animale sui farmaci serve e attualmente non si può sostituire se non in modo marginale.

Ora ovviamente uno può anche ritenere chi risponde a queste domande servo della lobby farmaceutica e di quella degli allevatori di animali da esperimento, tuttavia riteniamo che, laicamente parlando, il parere della comunità medica e scientifica su una data questione non si può sbandierare ai quattro venti quando ci fa comodo (legge 40, testamento biologico, eutanasia, omosessualità, etc.) e ignorare quando dice cose in contrasto con le nostre opinioni.

Laicamente quindi dovremmo prendere atto che almeno al quesito di natura scientifica, ovvero “la vivisezione serve o no?” una risposta, scientifica, è stata data e questa risposta è si. Obiettare che ci sono scienziati che la pensano diversamente significa avere lo stesso atteggiamento di coloro che contestano il darwinismo citando uno degli ospiti dei convegni di De Mattei.

Del resto è anche da superare l’immagine comune del ricercatore farmaceutico che è un macellaio sadico che ama torturare gli animali, un immagine dylandoghiana che può andar bene per i fumetti ma che non corrisponde a realtà. Si può essere ricercatori farmaceutici e amare gli animali, come dimostra benissimo Umberto Veronesi scrivendo sul sito della sua fondazione.

Rimangono ovviamente valide le obiezioni di natura etica, ovvero che non è giusto far soffrire gli animali per far star meglio l’uomo. Quando si entra nel campo dell’etica e della morale tutto diventa più labile e al tempo stesso meno confutabile. Per nostra natura non amiamo convincere nessuno che la nostra etica sia giusta e quella opposta sbagliata, ma se dobbiamo parlare laicamente non possiamo che far notare che un laico, per l’appunto, non può avere la pretesa che ciò che è giusto per lui sia giusto anche per gli altri. Se una persona estremamente sensibile preferirebbe morire invece di sapere che è stato salvata grazie al sacrificio di un centinaio di roditori, non può pretendere che tutti la pensino nello stesso modo. Laicità, per l’appunto.

Alessandro Chiometti

di seguito le domande e le risposte pubblicate sul sito dell’istituto Mario Negri

Domanda 1: Se la vivisezione poggiasse su basi scientifiche: perché esistono farmaci ad uso umano e farmaci ad uso veterinario? Tutti sanno che i farmaci ad uso umano e quelli ad uso veterinario non sono gli stessi ed anche quelli per i cani non sempre si usano per i gatti e viceversa. Quale prova più evidente per dimostrare che ogni specie ha un proprio funzionamento e i dati ottenuti su una specie non sono automaticamente estrapolabili a nessun’altra?

Da medico veterinario nonché da ricercatore ritengo che il dubbio sollevato dal dr. Cagno sia null’altro che un’interrogazione retorica, tra l’altro contraddetta dalla sue successive affermazioni. E’ proprio l’esistenza di farmaco ad uso veterinario e ad uso umano che rende evidente la scientificità dell’utilizzo degli animali nella sperimentazione, potendone studiare gli effetti sulle differenti apecie e determinando le dosi in base alla specie e la possibile tossicità. Naturalmente un argomento così complesso non può essere esaurito con una semplice battuta, quindi cercherò in modo sintetico di chiarire quelli che ritengo siano i punti salienti da considerare sia in termini di legge che logistici riportando l’esempio di farmaci (principi attivi, senza denominazioni commerciali) molto diffusi ed in uso in medicina umana e veterinaria.

1. Regolamento di polizia veterinaria per gli animali d’affezione e gli equidi che siano stati dichiarati non destinati alla produzione di alimenti (non ci inoltriamo nel problema delle terapie per gli animali destinati alla produzione di alimenti che altrimenti ci allontanerebbe dal fulcro della discussione). Il veterinario ha l’obbligo di usare e di prescrivere medicinali ad uso veterinario che siano registrati per la specie e l’affezione da trattare. Il problema è che sul mercato non esiste una disponibilità di farmaci ad uso veterinario sufficiente a coprire le necessità terapeutiche, quindi la legge permette l’utilizzo in deroga, a condizioni e nel perseguimento di finalità ben precise. Pertanto, in mancanza di un medicinale veterinario registrato per la specie e l’affezione da trattare, il veterinario potrà in deroga utilizzare direttamente o prescrivere un altro medicinale veterinario autorizzato in Italia per l’uso su un’altra specie o per un’altra affezione; in mancanza di tale farmaco, il veterinario può scegliere tra un medicinale autorizzato per l’uso umano o un medicinale autorizzato ad uso veterinario in un altro Stato europeo, per l’uso nella stessa specie o in altra specie per la stessa affezione o per un’altra affezione, oppure una preparazione estemporanea preparata dal farmacista. Tutta questa premessa, e quindi il regolamento di polizia veterinaria, non avrebbero motivo di esistere se fosse vera l’affermazione di cui sopra.

2. Amoxicillina/acido clavulanico: come è noto (o dovrebbe essere) a medici e veterinari l’amoxicillina è un antibiotico appartenente al gruppo delle penicilline. Generalmente è associato ad una sostanza, l’acido clavulanico, che ne aumenta l’attività nei confronti di alcuni batteri, che altrimenti sarebbero penicillino-resistenti. Questa combinazione è diffusissima sia in medicina umana che veterinaria. In particolare, in medicina veterinaria è utilizzata per il trattamento di un’ampia varietà di condizioni patologiche (infezioni della cute, dell’apparato urinario, delle vie respiratorie superficiali e profonde ecc…) dei cani e dei gatti, non deve essere utilizzata in conigli, cavie e criceti e deve essere utilizzata con cautela in tutti gli altri piccoli erbivori. Ovviamente, così come in medicina umana, il farmaco dovrà essere utilizzato con il dovuto rispetto delle dosi che saranno state preventivamente verificate nella fase di sviluppo del farmaco.

3. Paracetamolo: farmaco ad azione analgesica largamente utilizzato in medicina umana (a tal proposito credo sia inutile aggiungere altro). Nel cane deve essere utilizzato con attenzione come analgesico per via orale. Il paracetamolo (acetominofene), infatti, si distingue dagli altri FANS (Farmaci Antinfiammatori Non Steroidei) per un profilo di maggiore tollerabilità e sicurezza, una maggiore attività antalgica, una minore attività antinfiammatoria e minori effetti collaterali. A tali pregi, il paracetamolo associa un’azione anti-nocicettiva sia a livello spinale che sopra-spinale con effetti sinergici tra tali siti di azione. A differenza del cane, è controindicato l’impiego nel gatto a qualsiasi dosaggio. Anche in questo caso, la sperimentazione animale ha fornito un servizio eccellente alla specie umana e non solo, mettendo ben in evidenza le controindicazioni per specie e indirizzando al meglio l’utilizzo del farmaco.

4. Morfina, butorfanolo, buprenorfina, meperidina, ossimorfoneecc… anestetici oppiacei tradizionali e di sintesi che, con caratteristiche e peculiarità diverse, vengono largamente utilizzati sia in medicina umana che in medicina veterinaria. Ancora il tutto deriva dalla preliminare sperimentazione fatta su animali.

5. Miltefosina, Antimoniato di N-metilglucamina, Ambisone (che però ha dei costi elevatissimi): tutti principi attivi largamente utilizzati in medicina umana e medicina veterinaria contro la leishmaniosi, di cui per anni sono stati prescritti quelli ad uso umano, non essendo in commercio sottoforma di farmaci veterinari.

La lista potrebbe essere ancora molto lunga. Per completezza e sintesi chi è interessato al problema può approfondire l’argomento leggendo un qualsiasi trattato di farmacologia e farmacoterapia. In questo caso l’approccio al problema sarebbe scientifico e non ideologico, così come mi auguro avvenga in futuro per il progresso della ricerca biomedica e la salvaguardia della salute della specie umana e dei nostri fratelli animali.

 

Prof. Paolo de Girolamo

Professore ordinario di Anatomia veterinaria
Direttore Centro Servizi Veterinari
Università degli Studi di Napoli Federico II
Presidente Associazione Italiana per le Scienze degli Animali da Laboratorio

 

Domanda 2: Perché i ricercatori non vogliono che si avvii un processo di validazione dei modelli animali? I metodi sostitutivi la vivisezione sono sottoposti a processi di validazione, ossia di dimostrazione della loro validità scientifica, mentre i modelli animali non sono mai stati validati. Nonostante ciò, la prima proposta che i vivisettori rifiutano è proprio quella di validare i propri modelli. Strano per chi afferma di essere dalla parte della ragione. Se infatti i modelli animali venissero validati, gli antivivisezionisti scientifici non avrebbero più argomenti e quindi proprio i vivisettori dovrebbero essere i primi a chiederne la validazione.

Ci sono almeno tre affermazioni errate in questa domanda, cui desidero rispondere una per una:
• “I metodi sostitutivi la vivisezione sono sottoposti a processi di validazione, ossia di dimostrazione della loro validità scientifica.” In realtà, la validazione di un qualsivoglia metodo viene inteso dai ricercatori e, se di loro pertinenza, dalle autorità competenti (per esempio enti regolatori) come un processo continuo di caratterizzazione del metodo stesso, che continua fintanto che il metodo viene utilizzato, e che prevede i tre parametri Reliability, Reproducibility, Predictivity: E’ intuitivo che più dati vengano prodotti con un determinato metodo, più esso venga caratterizzato. Tale approccio si applica universalmente, ma in modo più o meno formale, in base alla tipologia del metodo oggetto della validazione. Per esempio, i modelli ufficialmente validati da organizzazioni preposte quali ECVAM, ICCVAM (o dagli altri….VAM nel resto del mondo) seguono un iter complesso e molto lungo. Tale iter non è realisticamente applicabile a tutti i modelli in vitro o in silico utilizzati ogni giorno nei diversi settori. Inoltre, i modelli ufficialmente validati da questi organi sono pochissimi e limitati all’ambito tossicologico, dove lo scopo finale è l’accettazione nelle linee guida internazionali (ICH, OECD).
• “…..mentre i modelli animali non sono mai stati validati. Nonostante ciò, la prima proposta che i vivisettori rifiutano è proprio quella di validare i propri modelli.” Per quanto riguarda i modelli animali, il fatto che non esista un processo di validazione ufficiale ECVAM-like non significa che non esista un processo di validazione. Innanzitutto bisogna considerare che, contrariamente ai modelli in vitro o in silico, non sarebbe eticamente accettabile ripetere N volte un esperimento su animali solo per valutarne la riproducibilità. Inoltre, bisogna considerare che ogni sostanza saggiata in un modello animale è diversa da qualunque altra: l’impossibilita` di ripetere lo stesso esperimento con la stessa sostanza e la diversità di “comportamento” biologico di ogni sostanza rende ogni esperimento unico. Per questo motivo viene riconosciuto dalla comunità scientifica e da alcuni enti regolatori il concetto di “valido” in alternativa al concetto di “validato”. La validità scientifica di un modello in-vivo si misura in termini di traslazionalitànei confronti dell’uomo, ovvero, in termini di predittività di eventi accaduti nell’uomo ed è tanto più robusta quanto più la casistica si arricchisce. Questo processo di validazione alternativo, l’unico applicabile peraltro, viene adottato sia in ambito regolatorio, sia nell’ambito della ricerca di base e ricerca applicata. Secondo questo meccanismo, l’analisi retrospettiva continua di un modello animale alla luce dei dati ottenuti sull’uomo è, a tutti gli effetti, un processo di validazione. A supporto di quanto affermato sopra, si consideri a titolo di esempio che ogni linea guida ICH (The International Conference on Harmonisation of Technical Requirements for Registration of Pharmaceuticals for Human Use), viene periodicamente rivista ed i modelli animali in essa contenuti vengono ridiscussi dal punto di vista della loro predittività e dei loro punti deboli, in base alla casistica accumulata.
• “…gli antivivisezionisti scientifici non avrebbero più argomenti “. Non esistono antivivisezionisti scientifici. Lo dimostra la totale assenza di lavori pubblicati su riviste peerreviewed.

 

Dr Gianni Dal Negro
Past-President Associazione Italiana per le Scienze degli Animali da Laboratorio

Domanda 3: Perché sono stati creati animali modificati geneticamente e quindi umanizzati? Nonostante possiamo contare su centinaia di specie differenti, i vivisettori negli ultimi 20 anni hanno creato migliaia di animali modificati geneticamente, aggiungendo un gene umano, oppure togliendo un gene che gli animali possiedono al contrario dell’uomo. Quindi in entrambi i casi, di fatto, gli animali sono stati “umanizzati”, ossia resi geneticamente più simili a noi. Non è questa una prova per dimostrare che la distanza tra gli esseri umani e tutte le altre specie è così elevata che dobbiamo umanizzare gli animali per pensare che possano essere utili per la ricerca?

Forse la domanda non è posta in maniera corretta. Quando si parla di animali geneticamente modificati si dovrebbero distinguere vari casi. Ci sono animali in cui un dato gene della stessa specie viene “aggiunto” o “spento” con lo scopo di studiare la funzione della proteina da esso codificata, in condizioni normali o di sviluppo. In altri casi la manipolazione genetica viene utilizzata per mimare malattie genetiche dell’uomo ed identificare/ sviluppare terapie che possano avere un’applicazione in clinica. Per molte malattie dell’uomo su base genetica non esistono infatti rimedi efficaci e la possibilità di utilizzare animali geneticamente modificati può essere l’unico strumento valido.
Ci si riferisce ad animali cosiddetti “umanizzati” nel caso dello xenotrapianto quando si modifica geneticamente l’organo di un animale donatore per renderlo “compatibile” con l’uomo. Un esempio ha riguardato lo sviluppo di maiali transgenici per proteine regolatorie del complemento umano che hanno migliorato la sopravvivenza dell’organo di maiale trapiantato in primati.
Un diverso utilizzo di animali geneticamente modificati è rappresentato dalla possibilità di far produrre agli animali grandi quantità di farmaci, anticorpi o vaccini. Per esempio, vitelli sono stati modificati nel DNA con il precursore del gene dell’insulina umana con l’obiettivo di ottenere l’insulina dal latte.

 

Prof. Giuseppe Remuzzi
Coordinatore delle Ricerche
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri
Centro Anna Maria Astori, Bergamo

Domanda 4: Perché dopo la sperimentazione sugli animali bisogna obbligatoriamente sperimentare sugli esseri umani? I vivisettori spesso ripetono che, se non si sperimentasse sugli animali, bisognerebbe farlo sugli esseri umani. In realtà in tutto il mondo le leggi impongono la sperimentazione umano dopo quella animale, prova indiscutibile che non possiamo fidarci dei dati ottenuti negli animali.

La risposta a questa domanda può sembrare un gioco di parole ma non lo è, infatti, dopo la sperimentazione animale, non è obbligatorio effettuare ricerche sull’uomo. Anzi, nella maggior parte dei casi, la fase della sperimentazione animale permette di evitare la sperimentazione umana qualora il trattamento sia risultato poco attivo o addirittura molto tossico.
La sperimentazione animale è pertanto necessaria poiché permette di selezionare i farmaci per la successiva fase clinica. E’ vero che in alcuni casi accade che i risultati negli animali non siano riproducibili nell’uomo, ma anche questi risultati sono utili perché stimolano riflessioni che ci aiutano a migliorare i modelli sperimentali e ad approfondire le conoscenze. Gli animali non sono l’uomo, sono un “modello”, il migliore che abbiamo a disposizione per non andare alla cieca sperimentando nell’uomo. La ricerca è dinamica, fatta di prove e riprove, fallimenti e successi che consentono di giungere, alla fine, a quei progressi che contraddistinguono la moderna terapia.

 

Prof. Silvio Garattini
Direttore Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri

Domanda 5: Perché è praticamente impossibile entrare nei laboratori? Entrare in un laboratorio di vivisezione è impresa quasi impossibile, anche quando si vuole concordare la visita. Ne sanno qualcosa i giornalisti di “Report” che quando hanno registrato una trasmissione sulla vivisezione non sono riusciti ad entrare nei laboratori dell’Istituto Superiore di Sanità. Tutto ciò è molto strano per un’attività che è considerata da chi la pratica lodevole e ben condotta.

Non è facile dare una risposta ad una domanda priva di fondamento (partendo dallo scorretto utilizzo del termine “vivisezione” che assolutamente non accetto) ma cercherò di farlo nella maniera più chiara e documentata possibile; per questa ragione vorrei iniziare sottolineando il fatto che un laboratorio è, per definizione, un luogo di lavoro a cui l’accesso deve essere regolamentato sia per motivi organizzativi che per motivi di sicurezza personale (Testo unico della sicurezza; D.Lgs 81/08 e 106/09) esattamente come è regolamentato l’ingresso ai laboratori ospedalieri o a quelli di una qualsiasi azienda. Regolamentato però non significa vietato, tantè che ogni anno la nostra struttura ha circa 150 visitatori da tutto il mondo tra cui numerose troupe televisive quali ad esempio quelle di Bau Boys (Italia 1), Le Iene (Italia 1), Superquark (RAI), TG5 (Canale 5), Vanguard (Current TV) nonché quella di Report (citata dallo stesso Dr Cagno); in particolare, nel servizio delle Iene visibile integralmente da questo sito, era già stata data una risposta a questa domanda, che in quella occasione fu posta dalla Dott.ssa Kuan. Il problema quindi non sembra risiedere nell’ottenere il permesso di entrata ma, al contrario, nella capacità di chiederlo in maniera corretta e, soprattutto, nella disponibilità ad utilizzare il materiale ottenuto senza manipolazioni. Credo infatti di dire una cosa quasi banale sostenendo che molte volte l’informazione (in audio o in video) viene distorta per poter essere funzionale ad una precisa teoria, come nel caso delle immagini vecchie di almeno 30 anni , se non addirittura clamorosamente false, che continuamente vengono utilizzate da chi vuole a tutti i costi dimostrare una violenza che non esiste. Credo con questa risposta di aver dato, ancora una volta, ampia dimostrazione della infondatezza della domanda posta dal Dr Cagno.

 

Dr Giuliano Grignaschi
Responsabile Stabulario Istituto Mario Negri

 

Domanda 6: Perché oltre il 50 per cento dei farmaci presentano gravi reazioni avverse dopo la commercializzazione? Gli antivivisezionisti sono a volte accusati di utilizzare i pochi casi in cui il comportamento degli animali si è dimostrato differente rispetto al nostro. Tuttavia i dati statunitensi hanno dimostrato che il 51 per cento dei farmaci hanno presentato dopo la commercializzazione gravi reazioni avverse che non si erano evidenziate negli animali da laboratorio e per questo motivo ogni anno muoiono circa centomila cittadini statunitensi. Come negare che questa strage dipenda da un modello sperimentale sbagliato?

Il Dott. Cagno ha toccato un punto importante. Gli interventi in medicina non sono privi di effetti non voluti, a volte anche gravi. I farmaci infatti sono scelti sulla base del loro beneficio netto, ovvero scontati gli effetti indesiderati che portano con sé. Devono cioè fare più bene che male e in qualche caso, pochi, questa differenza tra bene e male può essere piccola.
Prendiamo ora il dato che il 51% dei farmaci hanno presentato dopo la commercializzazione almeno una grave reazione avversa. Si tratta di un dato che comprende l’intera storia di un farmaco, ovvero tutte le volte che è stato somministrato, spesso in tante migliaia di individui, e spesso molte volte per individuo. Almeno una volta si è avuto un effetto avverso grave. E’ molto diverso dal dire che nel 51% delle volte che un farmaco è stato somministrato si ha un effetto avverso grave. Siamo quindi all’interno di un sistema terapeutico agisce per il bene dei pazienti, ovvero espone in un numero limitato di casi a eventi indesiderati, e nella maggioranza dei casi ci aiuta a guarire.
L’ultima considerazione è che il totale annullamento della sperimentazione animale porterebbe non a una diminuzione o sostanziale pareggio di quel 51 % di farmaci cha hanno causato almeno un evento avverso, ma a un suo probabile aumento. Infatti a noi medici mancherebbe il dato di tossicità nell’animale e ci troveremmo a testare il farmaco su uomini e donne, senza avere i dati prima in altri organismi viventi. Culture cellulari sarebbero di aiuto, ma non tanto quanto organismi complessi, con la loro capacità di aprirci gli occhi su possibili effetti sul fegato, reni e cuore. Sarebbe un momento drammatico somministrare un farmaco su una persona e poco prima dire: “Penso che questa sostanza potrebbe aiutarla, ma non so esattamente quanto fa bene e, soprattutto, quanto fa male, non so bene il dosaggio, non l’abbiamo mai sperimentata e lei è il primo essere vivente che la prova. Auguri.”

 

Lorenzo Moja, MD, MSc, Dr Pub Health
Assistant Professor, Università di Milano

 

Domanda 7: Perché si utilizzano prevalentemente roditori anche se sono animali lontani da noi da un punto di vista evolutivo? Oltre l’80 per cento degli animali utilizzati sono roditori, nonostante siano piuttosto lontani da noi da un punto di vista evolutivo. È vero che con loro condividiamo il 95 per cento del dna, ma con gli scimpanzé condividiamo il 99 per cento del dna. Certamente i roditori sono piccoli, mansueti, poco costosi e stimolano poca empatia nella gente. Sospetto che questi siano i criteri, “poco” scientifici, che li fanno preferire a tutte le altre specie più evolute.

La sperimentazione animale è una pratica scientifica che si basa su criteri razionali e che richiede risposte affidabili. L’obiettivo di testare un farmaco o un composto chimico o anche semplicemente di valutare una risposta fisiologica a stimoli indotti può essere realizzato solamente se il dato che si ottiene è attendibile e riproducibile. In sintesi non basta che un singolo animale risponda in un certo modo, ma è necessario che le prove siano condotte su un numero adeguato di animali (sufficiente cioè ad ottenere un dato statisticamente valido). Per questo dovendo scegliere una specie utilizzabile (ed allevabile) in grandi numeri, che sia di piccola taglia e che fornisca risposte standardizzate, i roditori siano i candidati migliori.
Anche se il genoma dei roditori non è uguale a quello dell’uomo, è comunque largamente sovrapponibile. Questo consente di avere modelli sufficientemente simili all’uomo per molti, moltissimi tipi di sperimentazione. La maggior semplicità dell’organismo murino rappresenta inoltre un vantaggio perché consente di comprendere meglio e prima i meccanismi molecolari che rappresentano la base della risposta fisiologica e farmacologica. I risultati ottenuti sui roditori non danno una risposta definitiva, ma sono utili per giungere a quello scopo.
Rispetto a qualche decennio fa le cavie (Cavia porcellus) sono state sostituite dai ratti (Rattusnorvegicus, Rattusrattus) per motivi di facilità di allevamento e di brevità di ciclo riproduttivo. Per gli stessi motivi, e la maggior facilità di manipolazione, negli ultimi anni i topi (Musmusculus) sono proporzionalmente preferiti rispetto ai ratti. Sempre nell’ottica di una semplificazione affidabile, si adoperano anche sempre di più modelli basati su organismi elementari: si pensi al moscerino della frutta (Drosophilamelanogaster) utilizzata in genetica per la sua versatilità, semplicità e presenza di geni omologhi ben conservati.
È vero che i roditori sono più distanti dall’uomo rispetto ai primati ma certo non è pensabile – e nemmeno eticamente accettabile – utilizzare un grande numero di scimmie per la sperimentazione quando le risposte fornite dai roditori sono per la stragrande maggioranza degli esperimenti e dei test perfettamente accettabili ai fini della valutazione scientifica del dato. Per quei casi particolari in cui la risposta data dai roditori non è sufficiente (es. vaccino contro l’AIDS) allora si rende necessario anche l’uso dei primati, nel minor numero possibile.
Infine è vero che il grande pubblico non nutre molta empatia per i roditori, ma questo non è necessariamente importante dal punto di vista scientifico. Il grande pubblico non nutre molta empatia nemmeno per le pecore, i maiali, i dromedari, le iene, i formichieri etc – tuttavia queste specie non presentano caratteristiche di mole, facilità di allevamento e standardizzazione che le rendano utili per la ricerca biomedica. Bisogna al contrario anche notare che alcuni roditori (criceti, gerbilli, gli stessi topi) stanno acquistando una crescente popolarità presso il pubblico e rappresentano un gruppo di pets di crescente diffusione.

 

Prof. Bruno Cozzi
Professore ordinario di Anatomia veterinaria
Dipartimento di Biomedicina Comparata e Alimentazione
Università di Padova

 

Domanda 8: Perché si studiano le malattie croniche e degenerative nei roditori che vivono solo 2-3 anni? Sono studiate negli animali malattie come i tumori, le epilessie, la demenza, la schizofrenia e molte altre che necessitano di molti anni, a volte di decenni, per potersi sviluppare. Nella maggior parte di questi casi si utilizzano roditori, come topi e ratti, che vivono al massimo 2-3 anni. Non è questa una differenza sufficiente per invalidare qualsiasi risultato?

La ricerca scientifica quando non ha a disposizione la verifica diretta delle proprie indagini sfrutta dei modelli in grado, in tutto o in parte, di simulare le condizioni reali. In ambito farmacologico la valutazione di quanto questi modelli sperimentali siano predittivi di ciò che potrà avvenire nel contesto della patologia umana è un tema che costantemente preoccupa e impegna ogni serio ricercatore. Sebbene a volte ci siano delle forzature, tutti sono consapevoli dell’impossibilità di avere a disposizione modelli sperimentali in grado di riprodurre completamente le condizioni patologiche umane. In particolare, per quanto riguarda le malattie croniche, lo sforzo è quello di capire il contesto in cui una determinata informazione è stata ottenuta; se la complessità di una patologia che impiega, nell’uomo, decenni a svilupparsi non può essere riassunta completamente in un modello animale, alcuni aspetti parziali relativi al target farmacologico, al meccanismo d’azione alla biodisponibilità sono certamente acquisibili solo in un organismo vivente. La scelta del modello animale è dettata innanzitutto dal rispetto delle normative vigenti (e del principio delle 3R) che prevedono, a parità di validità predittiva, l’utilizzo “di animali a più basso sviluppo neurologico” (Art. 4, Comma 2, Dlgs 116/92); conseguentemente, anche per lo studio di malattie croniche e degenerative, sono utilizzati roditori poiché in essi sono molto ben rappresentati numerosi meccanismi patogenetici tipici delle malattie umane.

 

Dr Gianluigi Forloni
Capo Dipartimento di Neuroscienze
Capo Laboratorio di Biologia delle Malattie Neurodegenerative
Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri

 

 

Domanda 9: Perché si studiano le malattie della mente negli animali che non sanno parlare? Il professor Pietro Croce affermava che la vivisezione poggia su un errore metodologico, ossia l’illusione di potere estrapolare i dati ottenuti negli animali nella nostra specie. In campo psichiatrico l’errore è doppio, poiché con gli animali non possiamo comunicare attraverso il linguaggio. Come si fa a capire se un animale è delirante, o allucinato, o ha idee suicidarie se non parla? Inoltre nelle ricerche in psichiatria e psicologia si somministrano sostanze psicoattive agli animali o si distruggono parti del loro cervello, condizioni che i clinici utilizzano proprio per escludere negli esseri umani una malattia psichica.

Da oltre 100 anni, cioè dagli albori della psicofisica sensoriale, è ben noto che il linguaggio non costituisce l’unico modo attraverso il quale è possibile comunicare con esseri viventi non dotati di tale proprietà. Ad esempio, le tecniche di operantconditioning permettono di capire e quantificare come gli animali discriminino stimoli sensoriali lungo un continuum di intensità, producano risposte motorie diverse a seconda delle istruzioni ricevute, siano in grado di comunicare stati mentali legati ad esperienze gradevoli od avverse, così come il risultato di operazioni neurali più complesse, quali quelle basate sulle inferenze, sulle catergorizzazioni e sulla discriminazione della numerosità, etc.Tutto ciò non sorprende, se solo si pensa che gli animali e noi non apparteniamo a sfere celesti diverse, ma siamo espressione di stadi diversi dell’Evoluzione. Il problema per gli sperimentatori (non vivisettori, parola inesistente nel vocabolario della lingua italiana!) nell’affrontare i modelli animali delle malattie mentali non è pertanto particolarmente diverso da quello che si pone quando si approntano modelli sperimentali di malattie più “semplici”: studiarne i fondamenti biologici. E’ ormai accertato, ad esempio, come malattie degenerative della corteccia cerebrale e dei suoi fasci di fibre efferenti siano alla base di alcune forme di demenza, come alterazioni delle connessioni tra diverse aree del cervello e delle loro interazioni dinamiche siano frequenti nei pazienti schizofrenici, come alterazioni del metabolismo di alcuni mediatori chimici, ad esempio, la serotonina in alcuni circuiti cerebrali, siano alla base delle sindromi depressive. Le malattie dello spettro dell’autismo hanno una componente genetica importante, del tutto ignota solo 20 anni orsono, ed il suo studio sta rilevando alterazioni specifiche, o comuni ad altre forme di ritardo mentale, che andranno approfondite e capite nella loro genesi ed espressione fenotipcaal di la della difficoltà da parte di questi pazienti o di qualunque animale sperimentale di comunicare in maniere efficace i loro stati mentali. Queste ricerche non risolvono il problematout court, ma ne focalizzano gli aspetti fondamentali sui quali sviluppare la ricerca. I modelli animali sono volti a stabilire nessi di causalità, non solo di correlazione, tra le varie alterazioni di cellule, tessuti, neurotrasmettitori e circuiti cerebrali, e patologie che ne conseguono. Le manipolazioni che essi permettono non sono eticamente e legalmente possibili nell’Uomo. I più moderni approcci, come l’optogenetics, consentono di manipolare selettivamente ed in maniera reversibile determinati circuiti nervosi e studiarne le conseguenze su forme semplici e complesse di comportamento senza indurre in tali animali alcuna lesione irreversibile.I tempi della lobotomia frontale alla Moniz sono, per fortuna, tramontati, ed agli approcci chirurgici si sono sostituiti metodi di inattivazione funzionale. Piena consapevolezza delle prospettive e dei limiti di questi modelli, quindi, ma nessun doppio errore. Certamente una doppia ignoranza, metodologica e concettuale,da parte di chi queste domande ne pone in tal modo.

 

Prof. Roberto Caminiti
Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia
Università di Roma La Sapienza

 

Domanda 10: Perché farmaci tossici negli animali sono stati lo stesso commercializzati? Di solito la gente crede che la vivisezione serva a selezionare le sostanze sicure da quelle tossiche per la nostra specie, tuttavia il prontuario farmaceutico è pieno di farmaci tossici negli animali che sono stati lo stesso sperimentati negli esseri umani e poi commercializzati. Forse gli stessi vivisettori non credono nelle loro ricerche e quindi dopo avere investito molti soldi nei test sugli animali, continuano in ogni caso le ricerche anche sugli esseri umani. È questa vera scienza?
Una sola di queste domande sarebbe sufficiente per mettere in seria discussione la validità scientifica della vivisezione, tutte insieme sono una dimostrazione che la ricerca medico-scientifica deve prendere strade diverse se vuole essere affidabile nei fatti e non solo a parole.

La normativa sulla sicurezza dei farmaci è estremamente rigorosa e non ne consente la commercializzazione se non quando sia stata dimostrata la loro tollerabilità prima sugli animali e poi sull’uomo. Nessun farmaco che si è dimostrato tossico sugli animali da esperimento è stato poi studiato sull’uomo; è vero, semmai, che in passato farmaci poco studiati sugli animali prima che sugli uomini sono stati causa di effetti avversi su questi ultimi. E’ il caso della talidomide che ha provocato gravi malformazioni nell’uomo, non prevedibili perché il farmaco non era stato studiato su cavie in stato di gravidanza.

Prof. Filippo Drago
Dipartimento di Biomedicina Clinica e Molecolare
Università di Catania
Scuola di Medicina, Catania

3 Gennaio 2013   |   articoli, filosofia e scienza   |   Tags: , , , ,