Articolo originale su Valigia Blu
Sono le cinque di mattina dell’aprile del 2012. Katerina ha fame, decide di uscire a comprare qualcosa. Dopo qualche passo nella brezza mattutina della capitale greca, Katerina si ferma al semaforo. Una macchina della polizia si accosta. «Dove credi di andare?», domanda il poliziotto. «Sto andando a comprare del pane», risponde Katerina. «No, non ci stai andando. Tu vieni con noi. Dobbiamo controllarti i documenti. Poi potrai andare a comprare il pane».Katerina non è troppo preoccupata. La polizia controlla spesso i documenti per cercare i migranti irregolari. Lei è greca: non ha nulla da temere. Almeno in teoria. Dentro la stazione di polizia –un luogo che lei conosce fin troppo bene, visto che è stata portata lì dentro più volte per «possesso di droga» – il poliziotto che l’aveva fermata la rassicura: «Non c’è nulla da temere. Faremo un test veloce per vedere se hai l’Aids, poi potrai tornare a casa». L’ultima volta che Katerina si era sottoposta al test, le circostanze erano nettamente diverse. Ci era andata da sola, volontariamente, dietro il suggerimento di un assistente sociale. Il test era risultato negativo. Ora la donna si trova in uno scantinato, osservata a vista da due agenti. Quando la luce rossa del macchinario si accende, il poliziotto le comunica l’esito con fredda brutalità: «Hai l’HIV». Salvo poi aggiungere: «Devo arrestarti». La storia di Katerina è raccontata in Ruins – Chronicle of an HIV witch-hunt. Il documentario – realizzato da Zoe Mavroudi, Theodora Oikonomides (@IrateGreek su Twitter), Omnia Tv e la rivista Unfollow – si concentra appunto sulla caccia alle streghe lanciata dal governo greco poco prima delle elezioni del 2012. Katerina, infatti, non è l’unica persona arrestata quel giorno. L’«Operazione Scopa» – presentata come un’azione di contrasto alla prostituzione – rastrella più di cento donne nel centro di Atene. Tra queste, 29 risultano positive al test dell’Hiv. Tutte finiscono in carcere con un’accusa gravissima: lesioni aggravate con il dolo di voler diffondere l’Aids. Ma l’aspetto più crudele dell’intera operazione è la gogna pubblica che viene loro riservata: le foto, i dati anagrafici e persino i nomi dei genitori vengono pubblicati sui media greci. Nell’arco di qualche ora delle persone che, oltre ad essere ai margini della società, soffrono di una gravissima malattia vengono gettate in pasto ad una stampa che si abbandona al più becero populismo, additandole come pericoli pubblici che minacciano la Nazione. La paternità dell’«Operazione Scopa» va certamente attribuita ad Andreas Loverdos, ministro della sanità, e a Mihalis Chrysohoidis, ministro dell’ordine pubblico. Entrambi sono esponenti di punta del Pasok, il partito socialista, e fanno parte dell’esecutivo “tecnico” guidato da Lucas Papademos, subentrato a quello dimissionario del socialista George Papandreou. Entrambi sanno che il Pasok è in declino irreversibile (dal 2009 al 2013 il partito è passato dal 43% al 6%), e che i loro giorni al potere sono contati. Loverdos aveva già cominciato a stigmatizzare la malattia il 9 giugno 2011, quando diede un discorso alle Nazioni Unite nel quadro di una conferenza sull’Aids. La tesi del ministro era piuttosto chiara: l’aumento dei casi di Hiv registrati nel Paese andava sicuramente imputato a «donne dell’Africa sub-sahariana e dell’Europa dell’Est» che vengono in Grecia e sono costrette a prostituirsi. In sala erano presenti anche esperti greci di Aids, che ovviamente non potevano credere alle loro orecchie. Qualcuno, avvicinando il ministro dopo la conclusione del discorso, gli chiese chiesto quali studi supportassero le sue affermazioni. Risposta sprezzante di Loverdos: «Ho le mie fonti». Naturalmente, come ricorda Yannis Varoufakis, Loverdos non aveva alcuna «fonte» Aveva però un piano. Un «violento piano per salvarsi politicamente spargendo la paura e appellandosi alle più ripugnanti crepe della società greca; quelle crepe in cui la misoginia, il razzismo e il panico morale possono far guadagnare qualche voto in più». Per portare avanti questo piano, Loverdos riesuma (o meglio: forza ben oltre i limiti della legalità) un decreto del 1940 che concede poteri speciali al suo ministero in caso di epidemie o rischi sanitari gravissimi. Per diverse settimane Katerina e le altre donne sono sbattute in cella senza assistenza medica e sociale, senza contatti umani o il minimo aiuto psicologico. Il documentario mostra anche i raccapriccianti servizi trasmessi dalla televisione greca, tra i quali spicca quello dell’udienza in tribunale: una vera e propria gogna in cui le donne, ammanettate e trascinate come bestie, sfilano davanti a poliziotti che portano guanti e cancellieri che indossano mascherine per evitare il “contagio”. Il piano, almeno nelle intenzioni originarie dei due, funziona. Un sondaggio mostra come l’80% della popolazione sia d’accordo con l’operazione. Il risentimento contro le “streghe” si è implacabilmente diffuso in una Grecia già ampiamente devastata dalla crisi. Loverdos imposta la sua campagna misogina e razzista sulla «protezione» dei «padri di famiglia» greci che sono cascati nella trappola ordita dalle «prostitute extracomunitarie». C’è solo un piccolo problema: solo una delle donne arrestate è una prostituta; le altre sono prevalentemente senzatetto e tossicodipendenti, e la stragrande maggioranza di loro è greca. La dottoressa Ourania Georgiou fa notare la grottesca ironia insita nella narrazione ufficiale: «In televisione hanno detto di voler proteggere il “padre di famiglia”, ed questo il motivo ufficiale che ha spinto il procuratore ad intervenire. Ma chi è questo “buon padre di famiglia” che si prende una ragazza con un problema di droga visibile da chilometri di distanza, le dice “ecco dieci euro per del sesso non protetto” e infine ha il coraggio di denunciare che “questa ragazza mi ha infettato”?» Non appena viene alla luce la circostanza e si tengono le doppie elezioni di maggio e giugno 2012 – che, tra le altre cose, vedono l’ascesa dei neonazisti di Alba Dorata – l’«Operazione Scopa» viene abbandonata con discrezione, in silenzio. Quasi come non fosse mai esistita. Loverdos e Chrysohoidis riescono a mantenere i loro seggi, nonostante il coma irreversibile del Pasok. Ma i danni arrecati sono incalcolabili. Le ragazze usate come cavie elettorali sono abbandonate a se stesse, ridotte a rovine umane che devono lottare contro la stigmatizzazione e la paura di uscire di casa, senza il minimo aiuto psicologico, sanitario o economico. «È come se lo Stato – ha detto la regista Zoe Mavroudi – ritenga giusto non risarcirle per essere state umiliate e sbattute in galera per dieci mesi». La scorsa estate il nuovo ministro della sanità, l’ultra-conservatore Adonis Georgiadis (con un passato nel LAOS, partito estremista di destra) ha riapplicato la disposizione usata da Loverdos, rendendo obbligatori i test medici e autorizzando le forze dell’ordine ad arrestare individui che risultano essere positivi all’Hiv. Negli ultimi mesi, inoltre, la polizia sta portando avanti l’operazione «Xenios Zeus», una vera e propria caccia al migrante irregolare in cui le Ong sospettano che si svolgano anche controlli medici forzati. In definitiva, l’«Operazione Scopa» non è più sulle prime pagine da un bel pezzo, e le donne come Katerina non sono più sotto i riflettori di un potere statale che schiaccia vittime innocenti e di una stampa con la bava alla bocca. Ma, come dice Varoufakis, «è difficile rimuovere il male una volta che è penetrato nel tessuto sociale e istituzionale» di un Paese.