Roboanti titoli di giornale e di telegiornali annunciavano che il festival di Cannes sarebbe stato facile terra di conquista per la pattuglia italiana formata dal tridente Garrone- Moretti – Sorrentino.
Com’è andata a finire lo sappiamo, oltre ai fischi per Sorrentino in sala nessuno degli altri due è stato degnato di attenzione dalla giuria.
La cosa è stata commentata pressoché uniformemente come il solito ostracismo dei transalpini nei confronti dei cugini italici.
Dopo aver visto due dei tre film in oggetto ci permettiamo davvero di dissentire.
Cominciamo da quello che non abbiamo visto, ovvero “Youth” di Sorrentino, premesso che apparteniamo a quelle mosche bianche secondo cui “La grande bellezza” era una cagata pazzesca per dirla alla Fantozzi (davvero insostenibile il messaggio ipocrita e moralista del film che non a caso piace al pubblico bigotto e moralista americano) e per cui cercheremo di non vedere il film, leggendo i primi resoconti questo viene definito un insieme di citazioni da baci perugina la cui unica cosa salvabile è l’interpretazione di Michael Caine (vedi recensione su Internazionale del 30/5/2015).
Passiamo invece a ciò che abbiamo visto e di cui possiamo parlare.
“Mia Madre” di Nanni Moretti [voto 4,0/10] è un film vigliacco e insostenibile, e lo diciamo da fan del regista romano. È un film sul dolore, ma è presentato in maniera davvero pesante che non lascia allo spettatore possibilità di respirare neanche un instante (a differenza de “La stanza del figlio” dello stesso Moretti che invece ci piacque tantissimo). Diciamo vigliacco, perché è come se per piacere a tutti i costi il regista volesse per forza tirare fuori il dolore allo spettatore, parlando per due ore di rimorsi, rimpianti, speranze deluse e quant’altro. Insomma è come se ci si fosse chiesti, puoi parlare male di un film che racconta la perdita della madre della protagonista? Ovviamente no, quindi incentriamo tutto su questo. Il resto del film è infatti tutto sullo sfondo, quasi un contorno inutile con John Turturro che si da un gran daffare ma resta per l’appunto sfocato, in secondo piano quando invece è l’unica cosa apprezzabile del film.
“Il racconto dei racconti” [voto 6,0/10] di un altro regista a noi caro, il Garrone di Gomorra, Reality e L’imbalsamatore, è un fantasy lentissimo, onirico e a seconda delle scene delicato o angosciante che riesce a strappare una stiracchiata sufficienza solo grazie alla seconda parte. Il problema è che il genere fantasy deve aver un ritmo sostenuto altrimenti è quasi automaticamente una favoletta per la buonanotte per far addormentare i bambini (e gli adulti in questo caso). Ora non che debba essere per forza “Il signore degli anelli” di Jackson ma per lo meno “La storia infinita” di Petersen si!
Il risultato è che noi possiamo apprezzare il tentativo di far riflettere sull’egoismo, la cupidigia e la mancanza di empatia nei confronti delle persone che ci dovrebbero essere care (vedi la bella interpretazione di Toby Jones che si preoccupa della pulce e non della figlia) ma il fatto pressoché incontrovertibile è che nella prima parte si sbadiglia alla grande. Poi con il passare del tempo il ritmo cresce e il film fila via indubbiamente in modo migliore.
Insomma i cugini francesi non sono invidiosi, ne’ rancorosi ne’ tanto meno ignoranti in materia di cinema. Il problema è che il cinema italiano da tempo non riesce a rinnovarsi e a parte alcune lodevole eccezioni (che negli anni precedenti erano costituite anche da questi tre registi) è sempre più uniformato e deludente.
Tanto per dire, qualche sera fa, ci è capitato di vedere “Moliére in bicicletta” ambientato nella Francia del Nord e ci è venuto naturale chiederci quando mai un regista italiano riuscirà a fare un film così: onesto, sincero e spensierato. Senza la necessità del grottesco, dell’esasperazione del dolore o di dover dare insopportabili giudizi morali.
J. Mnemonic