Il ricorso alla Corte Costituzionale di alcuni cittadini in materia di fecondazione assistita e diagnosi preimpianto ha condotto, lo scorso 11 Novembre, alla dichiarazione di incostituzionalità di alcuni articoli della legge n. 40 del 2004 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, in particolare nella parte che vieta l’accesso alle coppie fertili portatrici di patologie genetiche.
Il caso preso in esame dalla Corte riguardava due coppie, portatrici sane di malattie genetiche, che avevano chiesto di accedere alla fecondazione medicalmente assistita per poter conoscere, prima dell’impianto nell’utero materno, se il loro embrione avrebbe sviluppato o no la malattia. E’ chiaro che solo con la fecondazione in vitro sarebbe stato possibile l’esame preliminare, impossibile laddove la fecondazione fosse avvenuta in modo naturale. La legge prevede però questa possibilità solo per le coppie infertili o sterili e i coniugi ricorrenti, che volevano evitare di trasmettere ai figli patologie genetiche, ma che non si trovavano in condizioni di sterilità, si sono viste rifiutare l’accesso alla procreazione medicalmente assistita dal Servizio sanitario nazionale.
La Corte Costituzionale con la sentenza citata ha annullato gli articoli di legge che limitavano l’accesso alle sole coppie non fertili rilevando la evidente irragionevolezza della norma e sottolineando altresì il contrasto con la legge in materia di interruzione di gravidanza, che aveva di fatto creato l’assurda situazione che, da un lato, non consente alle coppie fertili di conoscere preliminarmente il profilo genetico del loro embrione ma permette poi l’aborto degli stessi feti rilevatisi portatori di malattia.
La sentenza della Corte, sebbene improntata ad una sostanziale ragionevolezza e ad un corretto bilanciamento degli interessi coinvolti, non è andata esente da aspre critiche da parte del Deputato e giornalista Eugenia Roccella che in un’intervista a Repubblica.it non si astiene dall’utilizzare termini come eugenetica e privazione di diritto alla vita.
La critica si incentra soprattutto sulla violazione del diritto dell’embrione a vivere. Un diritto che esisterebbe in ogni caso anche nel caso di embrioni portatori di gravi patologia per cui l’eliminazione di un embrione imperfetto sarebbe un atto illegittimo. L’on. Roccella peraltro ritiene che non esistano contraddizioni con la legge sull’aborto, che permetterebbe l’intervento, anche oltre i tre mesi, laddove il feto sia portatore di gravi difetti ereditari.
Da questa premessa discende la conseguenza assurda che si deve rispettare il presunto diritto dell’embrione a non essere scartato quando è ancora costituito da un grumo di poche centinaia di cellule indifferenziate, ma che lo stesso, divenuto ormai un feto di 4 o 5 mesi, presentando la grave malattia che si sospettava avesse, può essere eliminato con una atto abortivo, perchè sul suo diritto prevale quello alla salute della madre, peraltro costretta al grave trauma di una interruzione di gravidanza.
Per quanto riguarda poi il problema della rappresentazione della volontà è chiaro che l’embrione di fronte a questa prospettiva di vita ipotetica non può decidere nulla perché non ha una volontà.
Ma in tutti questi casi per conto di chi non può esprimersi possono validamente esprimersi i genitori, senza che questa costituisca una qualche prevaricazione, perché per l’embrione parlano coloro che l’hanno concepito. Ma per poter correttamente decidere i genitori devono conoscere anche le condizioni future di salute e di vita del figlio che hanno appena concepito, compresa la possibilità di sviluppare malattie ereditarie. Solo a loro spetta la scelta di impiantare nell’utero un embrione sano o uno portatore della patologia ereditaria che sicuramente farà nascere un bambino gravemente malato.
Si potrebbe obiettare che il diritto dei genitori a scegliere non include la decisione di sopprimere il prodotto del loro concepimento laddove decidano di scartarlo. Ma chi più dei genitori ha diritto di far pesare la propria scelta quando saranno soprattutto i genitori del futuro bambino malato a curarlo ed assisterlo? Non hanno essi forse pieno diritto a decidere se sono disponibili a legarsi ad una vita di sofferenza accanto ad un figlio gravemente disabile destinato talvolta a vita brevissima? E inoltre se questo diritto esiste per la madre mediante un intervento abortivo, perchè non dovrebbe esistere nel caso di un embrione?
Il pensiero della Roccella ricalca il modo di vedere di alcuni gruppi, di ispirazione prevalentemente religiosa, che non si limitano ad esprimere il loro dissenso ma operano per vietare o ostacolare l’esercizio di diritti individuali, alcuni dei quali personalissimi.
Nei pensiero di costoro è evidente la confusione, credo involontaria, tra la facoltà di esercitare un diritto e il dovere di esercitarlo. Permettere a chi lo vuole di divorziare, abortire o chiedere una buona morte non significa costringere tutti indistintamente a seguire la stessa scelta. Chi non è d’accordo può astenersi dal seguire quei comportamenti. La legge, laddove presente come nel caso del divorzio e dell’aborto, dà la facoltà, non obbliga.
Ma costoro oltre a confondere le facoltà con i doveri, vogliono anche trasformare i diritti individuali in divieti.
Se l’aborto è considerato un diritto da esercitarsi prevalentemente a tutela della salute della donna ebbene secondo costoro è un diritto da negare. Se il divorzio è una libera scelta per porre fine a situazioni insostenibili, deve essere comunque vietato. Se un individuo vuole porre fine alla propria vita ed è impossibilitato a farlo, non ha diritto ad ottenere un aiuto dallo Stato.
Chi è contrario a queste scelte, per motivi religiosi oppure perché crede nel valore della tradizione oppure perché teme pericolosi mutamenti sociali oppure perché questa è l’opinione di personaggi considerati autorevoli e degni di stima, o per altri mille motivi, non può, in una società che si dichiara laica, impedire agli altri che la pensano diversamente di esercitare i loro diritti di abortire, divorziare o morire.
A ben guardare l’azione, anche politica, di questi gruppi non tende ad affermare un loro diritto, ma in nome di principi astratti e spesso anche antiscientifici, è diretta a impedire agli altri cittadini il riconoscimento e l’esercizio dei propri diritti, anche se si tratta di diritti ampiamente riconosciuti nella cultura occidentale.
Ma così facendo danno luogo alla evidente stranezza che in alcune piazze si manifesta non per l’affermazione dei diritti propri ma per vietare i diritti degli altri.
Dagoberto Frattaroli