Conosciamo Damiano Meo da diversi anni ormai, ovvero da quando aveva accettato il nostro invito per presentare il lavoro realizzato insieme a Giuseppe Ciulla e approdato nel libro “Ai confini dell’impero” (Ed. Jacabook 2011) di cui lui aveva curato la parte del reportage fotografico.
Giuseppe Ciulla poi aveva realizzato un altro libro di indagine che abbiamo apprezzato molto ovvero “Un’estate in Grecia” (Ed. Chiarelettere, 2013) e non perché era una guida alle spiagge elleniche ma perché esplorava la Grecia come un altro confine dell’impero, ovvero la UE, che non era stato preso in esame nel libro precedente. La esplorava da quel fiume Evros che divide la Turchia da “noi europei” alle comunità autonome di Volos, al monte Athos ad Atene, la città non la necropoli.
Conoscendo Damiano personalmente e conoscendo la su abilità a parlare in pubblico raccontando storie non ci siamo meravigliati che anche lui si sia cimentato con lo “scrivere con l’inchiostro” accantonando per un po’ lo “scrivere con la luce”.
L’ha accantonato, nel senso che in questo libro (“Storie di semola e semplicità”, Tau editrice 2016, 73 pag. € 6.00) non sono presenti delle sue foto ma dei suoi racconti; però non l’ha abbandonato completamente.
Diciamo così perché le sue storie ricordano molto la fotografia che, come insegna Brassai “deve suggerire non insistere o spiegare”.
Damiano Meo fa proprio questo. In questi tempi salviniani in cui anche uno come Povia si permette di cantare canzoni di palese incitamento all’odio razziale e come ricompensa viene trattato come un maestro di pensiero e invitato a tenere conferenze (d)a destra e (da) manca, quando anche i piccioni da lui citati in una delle sue canzoni demenziali, se potessero, lo diffiderebbero in tribunale per prenderne le distanze; in questi tristi tempi dicevamo Damiano Meo fa una cosa strana. Ci racconta che a Palermo lui ha sempre incontrato, convissuto, parlato e condiviso esperienze con coloro che oggi sono genericamente “gli altri”. Gli arabi. I musulmani. I barbari.
Ma lo fa non componendo un trattato storico-sociologico sulla convivenza nella sua Sicilia fra diverse culture; lo fa con dei racconti che per l’appunto sembrano delle foto. Una donna che cucina il cus cus. Un pulmino abbandonato usato come rifugio per la notte e si dividono bicchieri di tè caldo. Una piccola cucina in cui gli insegnano a fare il tajin. Volti di uomini e donne giovani ed anziani che si sovrappongono come se fosse una mostra fotografica. Situazioni, in bianco e nero o a colori, che per l’appunto suggeriscono qualcosa.
Ci suggeriscono che forse ci dovremmo vergognare se temiamo per la nostra vita solo perché qualcuno sta recitando il Corano, come cantano oggi i Brunori Sas. (No, se ascoltate Povia, non cercate i loro pezzi su You tube, sarebbe inutile). Ci suggeriscono che il fenomeno della migrazione c’è sempre stato. Ci suggeriscono che anche gli italiani non solo sono stati, ma sono tutt’ora migranti e qualche nostro ragazzo, a cui questo paese non ha saputo assicurare un futuro, si trova in giro del mondo in cerca di fortuna, magari dovendo dormire su una panchina di Dublino o cavar patate fra le tarantole australiane.
Damiano Meo lo sappiamo è un convinto credente e per lui niente è per caso. Noi invece siamo degli atei miscredenti e per noi tutto è frutto del caso o per meglio dire della contingenza.
Ma sinceramente non ci importa niente se è stata la contingenza o il grande disegno cosmico a fare si che il primo numero della nostra rivista destinato all’immigrazione circolasse mentre Damiano ritirava il premio “Books for peace 2017” ad Aprilia assegnato a questo libro. Quello che ci interessa è che in giro, oltre a Povia e Salvini, ci sono anche persone che sanno usare i loro cervelli a prescindere dalla loro religione o dalla loro non religione; e che per quanto i mass media continuino scientificamente a dirci che “il nemico del povero è il più povero e così all’infinito” qualcuno smette di leggerli e ascoltarli, torna ad usare la propria testa, poi prende carta e penna, o una fotocamera, o una telecamera e cerca di far ragionare anche gli altri.
E, ne siamo sempre più convinti, non sappiamo come o quando, ma prima o poi ne usciremo fuori da questa situazione. Come diciamo sempre: we shall overcome.
J. Mnemonic