Distanziamento sociale: questo il primo e più grave errore di comunicazione commesso. Errore di cui ancora non si riesce a vedere la presa di coscienza di molti comunicatori. Si dovrebbe parlare sempre di distanziamento fisico e non sociale. La traduzione demenziale del termine anglosassone social distancing senza considerare la differenza enorme nell’uso della parola “social” è davvero terribile. Se social nelle terre anglosassoni è sinonimo di divertimento con gli amici, di serate danzanti, di giochi di ruolo e aperitivi in stile “sex and the city”, da noi “sociale” è usato principalmente per indicare le classi sociali, lo Stato sociale, gli ammortizzatori sociali.Il risultato è un messaggio particolarmente odioso.
Per di più è ormai accertato, non conta quanto siamo social pur volendo intendere questo solo nell’accezione anglosassone, ma conta a che distanza fisica siamo social. Il rischio di prendere qualunque virus con un aperitivo fra amici a due metri di distanza l’uno dall’altro e all’aperto è pressoché nullo.
Cambiare stili di vita: se con i virus ci conviviamo fin dai tempi della prima tribù di homo sapiens apparsa sulla terra non è che improvvisamente possiamo (soprav)vivere come piante grasse coltivate in serra, terrorizzati finanche dallo stringere la mano al prossimo. Doveva essere comunicato chiaramente fin dall’inizio che queste misure di sicurezza sarebbero state temporanee e mai, neanche per ipotesi, che potessero diventare un abitudine. E ovviamente qui non stiamo parlando della correzione della maleducazione verso il prossimo come la scarsa igiene personale in luoghi pubblici o il tossire e lo starnutire in faccia al prossimo.
Viceversa, si sarebbe dovuto mandare un messaggio ambientalista chiaro e deciso, chiedendo conto delle falsità sostenute da chi ancora pensa che la specie umana può fare scempio di ogni ecosistema del pianeta senza pagarne la minima conseguenza. Si sarebbe dovuto ricordare che sono anni che a causa del nostro folle sistema di vita a “crescita infinita” stiamo devastando il pianeta e che più o meno tutti gli studi scientifici concordavano che ci sarebbero state anche questo tipo di conseguenze.
Chissà perché invece (domanda retorica) anche questa volta il messaggio passato è stato quello di colpevolizzare il singolo e non la nostra intoccabile società dei consumi.
Lockdown: occorre dirlo con chiarezza. In Europa non c’è stato nessun Lockdown. No, non siamo impazziti, è la semplice constatazione dei fatti. Anche nei provvedimenti più duri come quelli italiani non si è mai andati neanche vicini ad un lockdown totale anche lontanamente paragonabile a quello della regione Huabei della Cina.
Si sono fatte chiusure, anche ben oltre il limite della ragionevole prudenza (fontanelle d’acqua, reparti di biancheria intima e cartoleria nei supermercati, toilettatori di cani e gatti, divieto di passeggiare da soli), ma il 55% della forza lavoro è andato sempre e comunque regolarmente al suo posto.
Si sono prese delle misure di sicurezza, rigide quanto si vuole, ma non c’è stato nessun lockdown propriamente detto. Non si è mai “chiuso tutto” come pure la vulgata ricorderà per decenni.
Immunità di gregge: A meno di essere in presenza di virus con trasmissibilità da uomo a uomo veramente bassa la soglia minima dell’immunità di gregge è sempre superiore almeno al 50% della popolazione. Senza un vaccino disponibile pensare di raggiungere quella soglia di protezione incentivando la diffusione del virus significa inevitabilmente condannare a morte molte persone se questo ha un alta letalità. (Sulla letalità definitiva della Covid 19 si prega di aspettare almeno un paio di anni prima di dare altri numeri al lotto).
Isolamento: Da quando esiste la medicina moderna è stato chiaro che in un’epidemia è fondamentale l’isolamento delle persone malate. Delle persone malate per l’appunto, non di quelle sane.
Per questo si sono costruiti i reparti di “malattie infettive” negli ospedali.
Per questo la Corea del Sud risulta tuttora lo Stato che ha contenuto meglio il virus con la sua procedura di tracciamento e isolamento dei malati in opportune strutture separandoli anche dagli ospedali normali.
Tracciamento: può suonare strano ma rintracciare le persone che sono venute a contatto con i malati e isolarle prima che contagino altre persone, è una procedura che si fa ben prima degli smartphone e delle loro relative app. È così che, tanto per fare degli esempi, si sono eradicati tifo, malaria, colera dal nostro paese e dall’Europa in genere. Senza bisogno di scaricare nessuna applicazione di tracciamento (che per inciso, senza un “internet delle cose” diffuso e senza fare tamponi a tappeto ha la stessa utilità di un portafortuna comprato alla bancarella del mercato).
Quando una persona risulta positiva al virus si fanno i test ai suoi familiari e ai suoi colleghi di lavoro e agli amici che dichiara di aver visto negli ultimi giorni. Eventuali “dimenticanze” non implicano per forza l’incombere di tragedie.
Statistica: mai come in questa epidemia è stato attuale il motto che definisce questa scienza come quella per cui “se una persona mangia due polli e l’altra è rimasta a digiuno vuol dire che hanno mangiato un pollo a testa”. Al di là delle battute, è ormai evidente che chi vuol giocare con i numeri, che sia del fronte complottista di quello negazionista o di quello governista, troverà sempre un modo per cui i numeri gli diano ragione (almeno in apparenza). Avevamo cercato di spiegarlo con un sorriso evidenziando quante cose collegassero il numero “19” a Max Pezzali vero deus ex machina del complotto. Abbiamo smesso di condividere l’articolo quando qualcuno cominciava a prenderlo sul serio. Ma c’è poco da ridere ne conveniamo, bisognerebbe smetterla di pensare di usare i dati per la politica e analizzarli all’esclusivo fine di fare il bene comune e… scusate, la nostra voglia di un paese normale è comunque dura a morire.
Studio Scientifico: un qualunque studio scientifico che abbia passato almeno i controlli dei revisori necessita di almeno tre mesi di tempi per essere pubblicato. Il resto è spazzatura e tali sono i media che li pubblicano.
State a casa: lanciare una campagna di misure straordinarie sanitarie con un messaggio così perentorio è già una scelta discutibile (tant’è vero che poco dopo è stato sostituito con il più empatico “andrà tutto bene”); peggio ancora quando si confonde palesemente la raccomandazione di stare A casa (dal lavoro o dalle attività ludiche) con lo stare IN casa.
Il giusto divieto di assembramento non può comportare il divieto uscire all’aperto. I danni psicologici dovuti alla privazione forzata (e ingiustificata) dello spazio aperto li pagheremo per lungo tempo e la cosa è stata peggiorata dai messaggi dei vip che ripetevano “che problema c’è? Si sta benissimo a casa!” dalle loro ville e dalle loro tenute alle famiglie che vivono in cinquanta metri quadri.
Di certo non ne siamo usciti migliori, la cosa è già abbastanza evidente per chi sa guardarsi intorno.
Nocebo: ogni tanto bisognerebbe ricordare a chi si occupa di salvaguardare la salute pubblica che, oltre al famoso effetto placebo, esiste anche l’effetto nocebo, che è il suo opposto. Ovvero una reazione avversa a una sostanza che in realtà non avrebbe effetti. Se una persona si convince che la sua malattia è incurabile, che è gravissimo, che non ha speranze e così via, quella persona può non reagire alle cure a differenza di un malato analogo che invece risponde benissimo. La responsabilizzazione verso un pericolo è giustissima. Il terrorismo mediatico che spara i pazienti di terapia intensiva intubati in prima pagina e in prima serata, molto meno.
Alessandro Chiometti