Paola Cortellesi debutta alla regia con un film praticamente perfetto.
Con buona pace di qualche penna critica che soffre di stipsi emozionale fino al punto di scambiare le scene volutamente surrealistiche con “personaggi troppo caricati” (sic.) e qualche vecchia conoscenza del giornalismo on line[1] che non perde l’occasione di puntare il dito sugli aspetti totalmente secondari e trascurabili , l’opera rappresenta di certo uno dei migliori debutti alla regia negli ultimi decenni del cinema italiano.
Personalmente lo accomuniamo nel 10/10 che avevamo assegnato, nell’altro secolo, all’opera prima di Luciano Ligabue, Radiofreccia. Con tutte le differenze del caso, ovviamente.
Abbiamo aspettato un po’ a parlarne perché, in primo luogo volevamo smaltire l’emozione iniziale (ebbene sì abbiamo pianto nel finale, non abbiamo mica problemi di emozioni costipate, noi!) per non farne una facile agiografia; e in secondo luogo perché non volevamo svelare il finale del film per coloro che non erano ancora andati al cinema. “Ma non è un thriller” direte voi! No, ma il colpo di scena finale è sorprendente quanto quello di Profondo Rosso.
Il film è praticamente perfetto dicevamo. E la debuttante regista centra in pieno ogni scelta.
Gli interpreti in primo luogo, dove tutti fanno una bellissima figura.
La ricostruzione scenografica della Roma post WWII: dettagliata, precisa e accurata.
La colonna sonora; perfetta anche quando la regista decide di mescolare le carte con pezzi e ritmi moderni quasi in distonia con le immagini.
Ma in particolar modo è vincente la scelta di non mostrare in modo cruento la violenza che la protagonista, Delia (la stessa Paola Cortellesi) subisce per mano del marito Ivano (Valerio Mastandrea); il film sarebbe diventato drammatico e insostenibile per i ragazzi under 14. Invece così diventa è un film adatto ad ogni età, ed anzi ne andrebbe sollecitata la proiezione nelle scuole.
La violenza qui si intuisce nei lividi che appaiono fra i risvolti del vestito di Delia; appare per un attimo ma viene cancellata così come il sangue sul volto di lei dopo il pugno del marito e in quell’occasione la violenza, diventa poi un surreale ballo a cui lo spettatore assiste raggelato perché sa benissimo quello che “in realtà” sta succedendo.
E ancora più vincente è la bravura della regista nel mostrare come la prevaricazione dell’uomo sulla donna nella famiglia (lo esplicitiamo per quelli che ancora oggi proprio nun ce vonno sta’: leggasi patriarcato o società patriarcale) non era una questione di censo. Le donne non dovevano avere una loro opinione ma solo quella che le consentiva il marito; così era per la povera Delia così era per le signore più benestanti a cui andava a prestare servizio, così come per la madre del ragazzo benestante a cui Ivano voleva dare in sposa la figlia. Il tutto nonostante le prime elezioni aperte alle donne erano incombenti (referendum Monarchia – Repubblica del 1946).
Altro bellissimo passaggio del film, l’accorgersi da parte di Delia che la figlia Marcella viveva nella sua relazione gli stessi meccanismi in cui era caduta lei con il marito (anche qui esplicitiamo: la spirale della violenza) per cui il possesso ossessivo da parte dell’uomo sulla compagna diventa sempre più esplicito. Dal semplice “non ti devi vestire troppo carina al lavoro” al togliere il rossetto con forza perché “te devi trucca’ soltanto per me!”
Durante tutti questi passaggi il film resta leggero ed ironico e lo ripetiamo volutamente surreale. Si ride quasi sempre, fatta eccezione per le scene descritte. La Cortellesi ha appreso in pieno le lezioni che ci hanno lasciato Scola e Monicelli.
Ma è la costruzione del finale il vero capolavoro. O per meglio dire il ceffone che Paola rifila a quasi tutti noi spettatori e ci fa accorgere di quanto, oggi, siamo “distratti” (per non dire di peggio).
Tutti stavamo pensando che Delia stesse progettando, attraverso vari escamotage, a una fuga d’amore con il suo ex Nino (Vinicio Marchionni), che la invita esplicitamente a lasciare Ivano e a fuggire con lui verso il nord. Pensavamo che il “c’è ancora domani” del titolo si riferisse all’ultimo giorno a disposizione per raggiungere il suo amante, pensavamo che la lettera nascosta gelosamente era l’indirizzo di Nino dove poteva raggiungerlo, o comunque una lettera dove le dichiarava il suo amore. Ma quando la fuga avviene si scopre che quella lettera era il certificato elettorale e il pensiero di Delia era stato quello di poter fuggire il tempo necessario per andare ad esercitare il suo diritto di voto.
E ci sembrava quasi di sentirla Paola Cortellesi, mentre scorrevano le immagini finali accompagnate dalla significativa canzone di Daniele Silvestri “A bocca chiusa“, con i suoi modi scanzonati guardarci e dirci: “Aho, ma non l’avevate capito che stavo a parla’ delle elezioni? Ma quanto siete scemi! Ve l’ho detto tutto il film che le donne stavano per vota’ per la prima volta e voi stavate a pensa’ alla fuga d’amore? Ma che c’avete sulla testa? Ah fregnoni!”
La lacrima ci è scesa, perché abbiamo realizzato di non aver capito quanto poco tempo è passato, relativamente parlando, in cui è stato concesso un diritto così importante. Perché ci rendiamo conto di aver perso la contezza dell’importanza dei diritti, del diritto di voto in particolare. E di tutti gli altri.
Abbiamo perso tutti la testa in una società in cui l’inutile è essenziale e l’essenziale è dato per scontato. Ed è proprio per questo che si rischia di perderlo.
Potremmo ora iniziare una serie di considerazioni sulle necessità della difesa e della riscoperta dell’importanza dei nostri diritti e di quelli che ancora mancano; ma sinceramente adesso è solo il momento di alzarsi in piedi e tributare un lungo applauso a Paola Cortellesi dicendole grazie, per questo ceffone che, speriamo, risvegli qualche coscienza.
Che, forse, domani c’è ancora.
Alessandro Chiometti
[1] Dopo aver raggiunto il record nella specialità olimpica dell’essere fuori luogo appoggiando e promuovendo la cagnara contro ZeroCalcare che aveva il torto di parlare romano, Guia Soncini supera se stessa e per sminuire il film della Cortellesi giunge a porsi la fondamentale domanda: “ma come ha fatto la protagonista a parlare con l’americano di colore coordinando il fallimento del matrimonio della figlia se nelle scene precedenti lei non capiva l’inglese?” Al di la’ degli indubbi complimenti per cogliere le vicende più importanti nella narrazione a cui si assiste, ci sentiamo di rimembrare alla Soncini tre semplici parole inglesi che compongono una regola cardine del cinema e della scrittura: “Show don’t tell”. Ovvero, quando la descrizione di un fatto è pressoché inutile alla trama e giustificabile in mille modi (come in questo caso… fra l’altro era passato diverso tempo dall’ultimo incontro con il soldato e l’amica di Delia l’inglese lo capiva benissimo tant’è vero che smerciava le loro sigarette), è meglio lasciar fluire la narrazione senza stare ad appesantirla.