Domanda alla politica e ai politici: per una volta potremmo chiamare le cose
con il loro vero nome? Giacché nell'infinita baruffa tra i partiti
sull'eutanasia e sui Pacs c'è a quanto pare un solo punto che li mette d'accordo.
Guai a pronunziare queste due parole nelle future leggi che regoleranno (si
fa per dire) la questione. Da qui le acrobazie verbali del programma
dell'Unione a proposito delle famiglie di fatto, sette righe che parrebbero
dettate dalla Sibilla cumana.
Da qui i sofismi sulla «buona morte», dove un
demone classificatore distingue fra eutanasia attiva e passiva, accanimento
terapeutico, consenso informato, rifiuto di cure, testamento biologico,
suicidio assistito. Da qui, infine, la vertigine che prende alla gola gli
italiani: secondo l'Eurispes 6 su 10 non capiscono dove stia la differenza
fra eutanasia e rifiuto dell'accanimento terapeutico. Non ci ho capito
granché nemmeno io, per quanto mi ci sia sforzato. Dopotutto se l'eutanasia
è una morte provocata su richiesta del malato, conta assai poco il modo con
cui questo dolente appello venga in concreto soddisfatto. E infatti quando
la domanda è chiara lo è altrettanto la risposta: sempre l'Eurispes attesta
che il 68 per cento degli italiani è favorevole all'eutanasia, mentre i
contrari sono soltanto 2 su 10. Conta qualcosa la volontà degli elettori? E
quanto conta il fatto che in Italia le donne coniugate nel 2005 fossero
appena 334.690 in più delle non coniugate? Quanto conta che le convivenze
stiano ormai per sopravanzare i matrimoni, e che questo fenomeno si consumi
tuttavia in un deserto di diritti?
C'è insomma un problema, anzi un doppio problema, che la società civile
rivolge alla politica. Ma la politica parrebbe incapace di risposte,
paralizzata dai veti incrociati fra i partiti che vivono lassù nel Palazzo.
E allora prova a neutralizzare i conflitti ponendo un tabù sulle parole che
designano i conflitti, vittima di quel «terrore semantico» di cui parlò
Calvino, come se la vita e il mondo fossero indecenti, e dunque andassero
per quanto possibile oscurati. Ma soprattutto finge di trovare soluzioni,
scrivendo leggi amletiche, assumendo decisioni che infine non decidono.
Succede innanzitutto sulle questioni di fine vita. Un disegno di legge che
ha quali primi firmatari Villone e Marino disciplina il rifiuto di
trattamento sanitario, pur ammettendo che questo diritto è già sancito dalla
Costituzione, e che perciò la legge non sarebbe necessaria. E allora perché
mai approvarla? Un'altra proposta regola il testamento biologico, benché –
come ha ricordato Umberto Veronesi – sette milioni di tedeschi già lo
pratichino pur in assenza d'ogni prescrizione normativa. Ma succede altresì
sui Pacs, dove la questione più spinosa – il diritto alla pensione di
reversibilità – parrebbe rinviata alle calende greche. Sul resto viceversa
c'è un accordo, o forse un cruciverba. Non riconoscimento ma «accertamento»
delle unioni di fatto. Non un registro ma un certificato. Diritti agli
individui, non già alla coppia. Ma una coppia non è formata da due
individui?
Insomma c'è da riesumare con urgenza la virtù della chiarezza, tirandola
fuori dalla tomba in cui l'ha ormai sepolta la politica italiana. Anche
perché altrimenti qualsiasi legge sui temi etici rischia di diventare come
quel libertino di mezza età di cui parlò Calamandrei sui banchi
dell'Assemblea costituente: un'amante giovane gli aveva strappato via tutti
i capelli bianchi per ringiovanirlo, mentre l'anziana moglie gli aveva tolto
quelli neri per renderlo più vecchio. Col risultato che il libertino rimase
infine con la testa completamente calva. Sicché se il legislatore è un po'
il nostro barbiere, c'è almeno una preghiera da rivolgergli: per carità, non
ci rasate a zero.
Michele Ainis su La Stampa del 29/1/2007