Contro il gregge ribelle…[manifesto]

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… il pugno di ferro del pastore.

Vi sono parole, idee, tradizioni di pensiero che, in determinate stagioni, vengono universalmente bandite dalla politica, private di ogni legittimità e additate al pubblico disprezzo. Una di queste è oggi «anticlericalismo». Non vi è esponente politico, per quanto impegnato nel contrastare le crescenti ingerenze della chiesa nella vita politica e istituzionale del paese, che non si preoccupi, prima di tutto, di allontanare sdegnato da sé anche solo il più flebile sospetto di anticlericalismo. Di un atteggiamento, cioè, universalmente giudicato come ciarpame d'altri tempi, come ideologia rozza e ingenua, irrispettosa della sensibilità popolare, quando non compromessa con una certa corruzione morale borghese. Primi tra tutti, i partiti di massa della sinistra, che, sottolineando appunto questi ultimi due aspetti, hanno sempre tenuto a smentire la benché minima inclinazione anticlericale.



Una debole laicità
Il dogma della «religiosità popolare», del tutto indimostrato quando non smentito (per quel poco che valgono) dalle statistiche, torna a dominare – sospinto e ingigantito da una alluvione mediatica – la postmodernità. Più volte nel corso degli ultimi anni, politici e intellettuali della sinistra, nonché diverse organizzazioni ed esponenti del movimento altermondialista hanno accreditato esternazioni pontificie e prese di posizione ecclesiastiche come modello contemporaneo di buon anticapitalismo, non inquinato dalle pratiche brutali del secolo passato. Della laicità stessa si tende a parlare soprattutto come di una tutela della pluralità delle fedi. Come di un quadro formale destinato a svolgere una funzione di puro e semplice garantismo a favore della libertà di culto. Resta così sottointeso che il pensiero laico e le istituzioni che ne discendono non devono e non possono entrare in attrito con nessuna fede, né tenere al riparo alcuna sfera sostanziale dal tribunale dei valori religiosi, pena la caduta nel deprecato anticlericalismo.
Ma il rifiuto dell'anticlericalismo, così come la fascinazione per l'anticapitalismo curiale, occultano un elemento che, all'inizio del secolo passato e per tutto il diciannovesimo, era appartenuto al più diffuso senso comune. E cioè la banale constatazione che la democrazia e la chiesa non solo sono due cose diverse, ma sono sempre in contraddizione e sovente in conflitto. L'una essendo fondata sulla sovranità popolare, sulla volontà dei cittadini, l'altra su una organizzazione gerarchica, custode di una verità rivelata. L'una su un principio elettivo, l'altra su un principio pastorale. E mai si è visto un gregge chiamato a deliberare sulla propria condotta.
Contraddizioni occultate
Lo stesso principio di uguaglianza, che sembra accomunare cristianesimo e socialismo, è nell'un caso inscritto nel quadro patriarcale del potere pastorale, nel secondo, malauguratamente solo in teoria, in un progetto di autogoverno. Il che comporta, comunque sia, una certa differenza. Su questo conflitto tra chiesa e democrazia la letteratura filosofica e politica è talmente vasta da lasciare solo l'imbarazzo della scelta. Ciò che invece sorprende è la totale sparizione del tema dal dibattito attuale.Tuttavia, questa contraddizione è apertamente dichiarata da parte della chiesa, mentre viene ripetutamente occultata dal ceto politico italiano, che ossessivamente si trincera dietro la libertà di espressione dei vertici ecclesiastici, mai messa del resto in discussione da nessuno. Il problema non è infatti la libertà di espressione o la denuncia dell'«ingerenza» vaticana nella sfera politica, ma la necessità di riportare all'attenzione dell'opinione pubblica il discorso sui caratteri costitutivamente antidemocratici dell'ideologia e della pratica ecclesiastica. E questo è il punto dell'anticlericalismo, la sua ragione, la sua «attualità».
Ma vediamo più da vicino quale è la posizione della chiesa sulla democrazia. Quella più semplificata e netta, destinata al grande pubblico e alla propaganda. Alla voce «democrazia» il Dizionario di dottrina sociale della chiesa (2005) curato dal «pontificio consiglio della giustizia e della pace» propone la seguente suddivisione: «1) in senso generico significa la partecipazione dei cittadini nella gestione degli affari pubblici: la Chiesa ha sempre incoraggiato tale partecipazione. 2) Secondo un significato specifico, la democrazia è una delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia e democrazia) oggetto della filosofia politica classica: in questo ambito, la Chiesa rispetta la libertà di scelta dei cittadini, anche se attualmente considera la democrazia come il tipo di governo che più favorisce la partecipazione alla vita pubblica. 3) l'ideologia della sovranità popolare, che ripone nel popolo l'origine ultima dell'autorità: il Magistero ha fatto vedere l'errore di tale ideologia».
Da questa premessa si ricavano: una definizione estremamente limitata di democrazia, in termini di «partecipazione» (concetto affatto diverso da quello di autogoverno e pratica che potrebbe darsi, per esempio, anche nell'ambito di una organizzazione corporativa dello stato); una semplice preferenza contingente per la democrazia, che non esclude la possibile benedizione delle forme di governo monarchica o aristocratica; il rifiuto netto della sovranità popolare, nonché dell'autogoverno dei cittadini. Quest'ultimo è ovviamente il punto decisivo. «Per evitare questo errore – prosegue il Dizionario – la dottrina cristiana ricorda che la libertà e la democrazia devono sorreggersi sulla verità e sui valori umani indisponibili». Per concludere che «l'obbedienza alla verità integrale dell'uomo diviene, pertanto, imperativo morale per la cultura democratica del nostro tempo». E questa verità integrale, di cui la cattedra di Pietro è depositaria, sarebbe incompatibile con ogni «relativismo». Ce n'è abbastanza per sostenere che la chiesa non accetta il principio dell'autogoverno democratico, o almeno ne circoscrive la sfera così da lederne irrimediabilmente la sostanza. Non saremo certo noi a fare della volontà della maggioranza nella democrazia rappresentativa un articolo di fede, né a occultare le innumerevoli nefandezze compiute sotto questa copertura (fino alle guerre incaricate di esportarla). Tuttavia non è affatto la stessa cosa se i «valori umani indisponibili» vengono fatti risalire a una verità rivelata, trasmessa o imposta da una gerarchia istituzionalizzata, o all'esperienza della relazione tra i singoli e alla crescita collettiva di una coscienza sociale. La quale, più dei regimi teocratici antichi e moderni si è dimostrata impegnata nell'arginare i dispositivi della sopraffazione (per esempio «relativizzando» lo stesso principio maggioritario con la tutela delle minoranze). La chiesa, nella sua pretesa di limitare la facoltà legislativa degli organismi democratici, si è esplicitamente richiamata al «diritto naturale».
Il monopolio sulla ragione
Quest'ultimo può certo essere invocato per legittimare una data gerarchia di potere e un dato assetto sociale, ma è stato, fin dai tempi più remoti, anche la bandiera di tutte le rivoluzioni. Ponendosi alle spalle più che al di sopra del diritto positivo e del potere costituito il diritto naturale rappresenta la possibilità stessa di rimetterne in questione le norme. È la regola che passa al vaglio le regole, la fonte del «diritto di resistenza», più un principio di disobbedienza che un principio di obbedienza. E dal suo stesso interno, così come dal campo secolare, l'istituzione ecclesiastica stessa è stata ripetutamente accusata di calpestare proprio il diritto naturale, sovrapponendovi una verità artificiosa. Ma oggi il Vaticano invoca, non senza un certo azzardo, il «diritto naturale» nella sua versione critico-rivoluzionaria, come fonte di uno ius resistentiae contro l'arbitrio della scienza o il pluralismo democratico sospettato di volgere in «relativismo culturale». Di qui l'intransigenza di chi intenda mettersi alla testa di una rivoluzione: una rivoluzione antidemocratica.
Ogni rivoluzione ha sviluppato la sua interpretazione del diritto naturale. La chiesa ha la sua, con l'esclusione di tutte le altre. Si tratta, paradossalmente, di un «diritto naturale» di origine sovrannaturale (sebbene, secondo la tradizione tomista, la ragione sia sufficiente ad accedervi). Perché avventurarsi allora su un terreno così scivoloso? Perché non accontentarsi della nozione, meno insidiata dal «materialismo», di «verità rivelata», perché privilegiare il monopolio dottrinario sulla ragione, come fa l'attuale pontefice, rispetto al mistero della fede? Il problema è politico. La chiesa ha, per così dire, bisogno di scendere nel dettaglio. Il diritto naturale di cui parla non si limita a un ristretto numero di principi universali, ma entra nell'articolazione delle regole sociali, punta sul ripristino di una autorità con una forte presa, non solo simbolica, sull'organizzazione sociale, sui comportamenti e sulle scelte individuali. Una autorità, e questo è il punto decisivo, che pretende di esercitarsi anche sui non credenti. Il passaggio al diritto naturale serve appunto a setacciare l'attività legislativa delle istituzioni democratiche in questa chiave. Così quando si parla del matrimonio, la chiesa sottolinea il suo carattere «naturale» e «razionale» prima ancora che sacramentale. Ma questa naturalità si presenta già corredata dei suoi caratteri ideologici e normativi (l'indissolubilità, la fedeltà, la finalità procreativa). Tutti elementi dichiarati «indisponibili», pur trattandosi con tutta evidenza di un'opzione culturale tra altre. Diverse interpretazioni del diritto naturale possono invece (e ripetutamente lo hanno fatto, probabilmente con maggior realismo storico) imputare al diritto naturale il «libero amore», la promiscuità o la poligamia e invece al sacramento del matrimonio una funzione artificiosamente sovrapposta. Interpretazioni, rispetto alle quali lo «stato laico» è tutt'altro che neutrale, impegnato come è, nel cercare di dimostrare la sua comunanza di valori con la dottrina ecclesiastica, in un contesto in cui la presenza crescente di culture e religioni diverse e soprattutto le concrete scelte di vita dei cittadini rendono sempre più difficile questa consonanza. Siamo così di fronte a una sorta di guerra unilaterale. Nella quale da parte della chiesa viene sferrato un attacco senza esclusione di colpi contro l'autonomia concordataria dello stato, minacciando conseguenze, come ha dettagliatamente segnalato Gustavo Zagrebelsky, all'interno delle sue stesse istituzioni. Mentre dall'altra parte si balbettano scuse, negando la possibilità stessa di un attrito con la dottrina sociale della chiesa.
Fra controllo e autogoverno
Ma l'argomentazione concordataria e il richiamo all'articolo 7 della Costituzione, nella loro ottica essenzialmente giuridica e centrata sul rapporto tra poteri costituiti, lasciano in ombra il fatto decisivo. E cioè che l'offensiva ecclesiastica non si rivolge affatto contro l'autonomia e la sovranità dello stato laico, bensì contro i suoi caratteri democratici e soprattutto contro quel tanto di autogoverno dei cittadini che in essi riesce a svilupparsi. Quel che è grave agli occhi del Vaticano non è tanto che lo stato legiferi sui cosiddetti «valori indisponibili», ma che recepisca, o meglio sia costretto a recepire, ciò che già si è affermato nella vita della società: comportamenti, abitudini, scelte imposte dal basso (declino dei matrimoni e delle nascite, separazioni, convivenze di fatto, interruzioni di gravidanza). In buona sostanza la chiesa pretende, e trova orecchie disposte ad ascoltare, che lo stato si faccia carico, pur nelle sue forme laiche e parlamentari, di quello stesso principio pastorale e intrinsecamente antidemocratico che presiede all'azione ecclesiastica. Allo stato si rimprovera, insomma, non di essere laico, ma di essere «permissivo». Questa spinta si incontra con una spinta analoga, proveniente dal mondo della politica, che una volta consumata la separazione tra liberismo economico e libertà individuali, muove verso una iperregolamentazione della vita dei singoli, in base al principio, pastorale appunto, che debbano essere difesi da se stessi e dai propri irresponsabili desideri, forieri di immoralità e di crescita del debito pubblico. E anche coloro che desiderano la regolamentazione delle coppie di fatto non dovrebbero perdere di vista questa insidia.
La partita che si gioca non è tra stato e chiesa, ma tra il controllo sulla vita e il suo autogoverno, tra le pratiche sociali diffuse e l'autorità, tra la libertà dei singoli e la trascendenza del potere. Ragione per cui non possiamo non dirci, al tempo stesso, anticlericali e antistatalisti.

Marco Bascetta sul manifesto del 28 Febbraio 2007

8 Marzo 2007   |   articoli   |   Tags: