Il tema della prevalenza dell’autismo tra i più giovani è tornato al centro dell’attenzione negli Stati Uniti dopo che il presidente Donald Trump ha affermato, qualche giorno fa, che si sta assistendo a “un enorme aumento dell’incidenza dell’autismo nei bambini”. Limitandosi alle diagnosi, l’affermazione è corretta e confermata dalle valutazioni statistiche di molte università (tra cui quella di Penn State in Pennsylvania), che hanno notato un inesorabile aumento dei casi certificati dal 2000 in poi. In meno di vent’anni si è passati dallo 0,3% all’1,5% di casi certificati, prendendo come riferimento l’età di 8 anni. Oggi si stima che nelle scuole circa 1 bambino ogni 66 abbia ricevuto una diagnosi di autismo, con una prevalenza molto più alta nei maschi.
Il numero di diagnosi è però l’effetto combinato di una serie di fattori, che vanno dagli aspetti di natura clinica a quelli burocratici, amministrativi e sociali. Un’analisi più approfondita delle dinamiche di questo fenomeno ha portato a concludere che una buona – se non la maggior – parte dell’aumento dei casi non è da attribuire a una reale crescita dell’incidenza dell’autismo.
Ecco alcuni punti da tenere presenti per affrontare la complessità della questione.
1. L’autismo include un ampio spettro di sintomi
Quando si parla di autismo o di disturbi dello spettro autistico si include un ampio ventaglio di possibilità, che vanno dalle difficoltà nell’interazione sociale ai deficit nella comunicazione, dai difetti di concentrazione ai problemi nello svolgimento di compiti ripetitivi.
Inoltre è molto variabile la gravità di questi sintomi, che può andare da un lieve disturbo fino ai casi più gravi. A volte vengono considerati sintomi dell’autismo anche il nervosismo dovuto a un cambio della routine quotidiana, la lentezza nella costruzione delle frasi e la povertà di competenze linguistiche. Il solo conteggio dei casi, dunque, fornisce una fotografia molto parziale dell’attuale situazione.
2. La diagnosi dell’autismo non è basata su parametri clinici quantificabili
Fino a oggi i ricercatori non sono riusciti a trovare un aspetto neurologico, genetico o un sintomo che sia univocamente associabile all’autismo. Analisi del sangue, screening cerebrale o altre indagini cliniche non permettono di stabilire la presenza o l’assenza del disturbo. Sono in corso tentativi più o meno promettenti di diagnosi clinica, ma la prudenza è ancora d’obbligo. Di conseguenza, la diagnosi si basa sul buon senso, sull’esperienza e sulla soggettività del medico che si occupa della valutazione, con il solo aiuto dei criteri guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, che definiscono in linea generale che cosa si debba intendere con autismo.
Non solo medici diversi possono giungere a conclusioni opposte, ma uno stesso medico potrebbe compiere valutazioni differenti da un anno all’altro a causa del continuo aggiornamento delle già citate linee guida internazionali. Citando uno dei dati raccolti da FactCheck.org, quasi il 60% dei bambini visitati dieci anni fa e dichiarati non autistici ora riceverebbe una diagnosi positiva.
3. Oggi c’è più consapevolezza sull’autismo
Medici e famiglie hanno via via acquisito consapevolezza dell’esistenza e delle caratteristiche di questo disturbo. Si tratta di un aspetto culturale indubbiamente positivo, che potrebbe però essere la causa principale dell’aumento dei casi registrati. Se in passato l’autismo era poco considerato, è naturale che i casi riconosciuti fossero in numero inferiore. A sostegno di questa tesi, alcuni studi scientifici hanno dimostrato una correlazione tra il numero di casi di autismo e altri fattori sociali quali il grado di istruzione della popolazione, il numero di pediatri e la sinergia tra scuole e ospedali.
4. C’è una progressiva ri-catalogazione delle diagnosi
Il dato sull’autismo, da solo, racconta solo una parte della storia. Statistiche alla mano, l’aumento dei casi di autismo è andato di pari passo con la diminuzione delle diagnosi di altri disturbi, quali la disabilità intellettiva e il ritardo mentale. Il calo di queste diagnosi sarebbe sufficiente a giustificare almeno i due terzi dell’aumento dei casi di autismo. I disturbi citati condividono buona parte dei sintomi, quindi spesso la catalogazione dei pazienti è a discrezione del medico che si occupa della diagnosi.
5. L’aumento dei casi, in parte, potrebbe essere reale
Nonostante le numerose spiegazioni che giustificherebbero l’aumento delle diagnosi come effetto di fattori sociali e burocratici, secondo gli scienziati è comunque plausibile che i pazienti autistici siano davvero in crescita. Alcuni studi hanno infatti dimostrato un legame tra l’incidenza dell’autismo e l’età dei genitori. I dati sui papà non permettono di affermare con certezza che ci sia un invecchiamento, mentre per quanto riguarda le mamme l’aumento dell’età media al momento del parto è senza dubbio aumentata negli ultimi vent’anni, per lo meno tra Europa e Stati Uniti.
6. Non esiste alcun legame con le vaccinazioni
Qui su Wired è già stato scritto a più riprese, ma ancora una volta vale la pena di ribadire che le teorie sulla correlazione tra vaccini e autismo sono del tutto infondate e basate su una frode scientifica da parte del medico inglese Andrew Wakefield nel 1998. Anche se il legame con le procedure vaccinali è stato molte volte smentito, Donald Trump ha spesso ventilato l’idea di una responsabilità dei vaccini nell’aumento dei casi di autismo. Tra le tante spiegazioni possibili, questa è senz’altro una bufala.