Terminano, finalmente, le celebrazioni per la Giornata mondiale della Gioventù 2013. Dopo aver saputo per filo e per segno, dai nostri instancabili media, cosa ha detto e ha fatto papa Bergoglio in ogni momento delle sue lunghe giornate, a chi ha sorriso, come era vestito, quante volte ha tirato giù il finestrino della papamobile, a chi ha detto buongiorno e a chi buonasera, veniamo a sapere che di ritorno dal Brasile ha pronunciato le fatidiche parole: «Chi sono io per giudicare un gay?». Apriti cielo.
Poco importano il prima e il dopo del discorso, la storica frase fa breccia nei cuori e nelle menti di laici, atei, agnostici, omosessuali, dissidenti, critici, eretici. Il primo a esserne conquistato è il governatore pugliese Nichi Vendola, che su Facebook esterna soddisfatto: «Papa Francesco ci spiazza ancora. Separando finalmente il tema dell’omosessualità da quello della pedofilia, si è chiesto: “Chi sono io per giudicare un gay?” Se la politica avesse un milionesimo della capacità di respiro e di ascolto di Bergoglio, sarebbe davvero in grado di cambiare se stessa e la vita della gente che soffre».
E infatti, chi è Bergoglio per giudicare, quando il Catechismo della Chiesa cattolica, da lui stesso citato (se solo Vendola avesse letto per intero la dichiarazione papale), parla più che chiaro? «Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati». E via farneticando (per una lettura integrale: vatican.va). Ma soprattutto forse a Vendola, e a tutti i sostenitori del papa “buongiorno e buonasera”, è sfuggita (anche) questa frase: «Quando uno si trova perso così va aiutato, e si deve distinguere se è una persona per bene». Perso, sì. Avete letto bene.
Nel tripudio di ovazioni per un papa che “finalmente” parla di omosessuali dando un’idea di apertura quando invece non si scosta affatto da ciò che dice da sempre la Chiesa, passa inosservato un altro gesto plateale, tra il disgustoso e l’incivile. Nella messa finale di Capocabana, il pontefice ha portato sull’altare una bambina anencefala, condannata a morte nel giro di pochi giorni o qualche mese, nata per la “grazia” di due genitori che hanno scelto di metterla al mondo invece di abortire. L’inno alla vita che è già morte è un insulto alla vita stessa, alle donne che rifiutano di sottoporsi e sottoporre il loro futuro bambino a un calvario che di umano non ha nulla, quelle donne, al contrario, santificate da una religione per la quale il sacrificio loro e altrui è lasciapassare per la vita eterna.
Dov’erano Vendola, i cattocomunisti e tutti i fan di Bergoglio mentre quest’ultimo celebrava un rito inumano e primitivo per convincere le donne a non abortire? Dov’erano quei giornalisti munifici di parole e dettagli quando un essere inerme e morente giaceva sull’altare dell’assurdo?
Francesco incarna perfettamente il bisogno della Chiesa post ratzingeriana: il marketing sostituisce la sostanza. Che quella è e quella rimane. In omnia secula seculorum.
Cecilia M. Calamani