Chiesa e schiavitù

Pubblicato da

Secondo un luogo comune molto diffuso, il cristianesimo avrebbe “abolito” la schiavitù.  A riprova si cita Paolo «Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio né femmina; perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù» (Lettera ai Galati, 3,28). In realtà Paolo afferma sì l’uguaglianza, ma solo su un piano spirituale, davanti a Dio e nell’altra vita. E tuttavia ancora nel 1888 Leone XIII nell’In plurimis ripeteva: «Non si attribuiranno mai abbastanza elogi né si sarà mai abbastanza grati alla Chiesa cattolica, che per somma grazia di Cristo Redentore abolì la schiavitù, introdusse tra gli uomini la vera libertà, la fratellanza, l’uguaglianza, e perciò si rese benemerita della prosperità dei popoli». Ma ciò è contraddetto dalla storia.

 

La schiavitù dall’Antico al Nuovo Testamento

Già nei testi che, secondo la Chiesa, sono ispirati da Dio, si legittima la schiavitù. Il Decalogo ordina di «non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino» con ciò riconoscendole “proprietà” legittime e anzi da rispettare. La Bibbia vietava agli ebrei di avere schiavi ebrei, ma consentiva loro di fare schiavi i pagani. Paolo nella Lettera agli Efesini dice «Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo» (6,5) e nella Prima lettera a Timoteo: «Quelli poi che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio» (6, 2). E in effetti i nobili romani, benché convertiti, continuarono ad avere schiavi.

Nel Medioevo cristiano

Nel Medioevo cristiano la pratica della schiavitù era prevista e codificata. Nel V secolo Agostino afferma che Cristo «non ha preso i servi e ne ha fatto dei liberi, ma ha preso dei servi cattivi e ne ha fatto dei buoni». E aggiunge con involontario umorismo: «Quale debito hanno i ricchi verso Cristo per il modo come ha loro sistemato la casa!» (Esposizione sui salmi, 124, 7).  Agostino sostiene poi, come ripeteranno Tommaso d’Aquino e Leone XIII, che «a buon diritto la condizione servile è stata imposta all’uomo» come castigo del peccato.

Le Istituzioni (VI sec.) del cattolicissimo imperatore Giustiniano stabilivano «che i padroni abbiano diritto di vita e di morte sugli schiavi» e vari concili locali vietavano a vescovi e frati di vendere «case, schiavi e gli arnesi» della Chiesa. Il concilio di Toledo del VII sec. decretava: «chi dal vescovo giù giù fino al suddiacono abbia generato dei figli da nozze esecrande, sia con una donna libera sia con una schiava, dev’essere punito secondo la legge canonica; i figli generati da tale incesto devono appartenere per sempre come schiavi alla Chiesa». I frati della Casa della Santa Trinità (XII secolo) avevano come regola di riscattare i cristiani fatti schiavi da pagani dando in cambio denaro o schiavi pagani di loro proprietà.

I papi e  il commercio di schiavi

I papi, pur episodicamente vietando di trarre in schiavitù questa o quella categoria (i cristiani, gli indi, i catecumeni ecc.), non condannarono la schiavitù in generale, anzi la giustificarono e la ordinarono. Qualche esempio: il canone 27 del Concilio Lateranense III (1179) autorizza a ridurre in schiavitù le bande anticristiane della Brabanza, Aragona e Navarra; Niccolò V “concede” al re del Portogallo di «ricercare, catturare, conquistare e soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo…e di gettarli in schiavitù perpetua» (Romanus pontifex, 1454). Paolo III mente intima agli spagnoli di non trarre in schiavitù gli indii, autorizza le ricche famiglie romane a servirsi di schiavi (1549).

Il traffico di schiavi fu poi pratica costante dello Stato della Chiesa in età moderna, come attestano il fitto scambio epistolare di vari papi con funzionari vaticani per la compra-vendita di esseri umani, soprattutto turchi: a titolo di esempio citiamo la lettera con cui Innocenzo X informa nel 1645 mons. Raggi di aver ordinato «al Principe Nicolò Ludovisio generale delle nostre galere che le provegga di 100 schiavi Turchi». E ancora nel 1794 tal Colelli ricopriva la carica di «intendente pontificio per gli schiavi».

Finalmente, la Chiesa “condanna”

Solo nel 1839, con l’enciclica In supremo, Gregorio XVI condannò come “delitto” la schiavitù in quanto tale, ormai bandita dai maggiori paesi europei. E tuttavia pochi anni dopo un’Istruzione del Santo Ufficio approvata da Pio IX, dichiarava “Non contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato” (1866). La condanna di ogni forma di schiavitù fu invece ripetuta dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 1965).

In conclusione la Chiesa non ha abolito fin da principio la schiavitù anzi l’ha praticata per secoli, ha giustificato la sua conservazione e ha speso la sua influenza per perpetuarla. E quando si è decisa a condannarla non ha ammesso di aver predicato l’errore per quasi due millenni. Né potrebbe, senza doversi riconoscere umanamente fallibile anziché divinamente ispirata…

Una spia di tale contraddizione, e del tentativo di tenere insieme, occultandole sotto una apparenza di “continuità”, dottrine contrastanti fra loro, può vedersi anche nel Catechismo attuale (1992) che riporta a fronte il decimo comandamento odierno, molto sobrio («Non desiderare la roba d’altri») e il testo assai più inquietante, anche per l’attuale asserita parità uomo-donna, del decalogo biblico da cui deriva: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

 

Walter Peruzzi – Cronache Laiche

 

blog   |   Tags: , ,