Francesco Guccini saluta e se ne va. L’Ultima Thule uscito da pochi giorni sarà ricordato come il suo ultimo disco e come lui stesso profetizza nella strofa che chiude il disco «si perderà in ultima canzone di me e della mia nave anche il ricordo ». Quasi 50 anni di storia della musica italiana in realtà saranno difficilmente dimenticati e ci sembra davvero di essere facili profeti nel dire che molti altri anni dovranno passare prima che in una serata fra amici dove c’è una chitarra non salti fuori qualcuno che intoni: «ma se io avessi previsto tutto questo, dati cause e pretesto le attuali conclusioni... »
Basta nominarlo Francesco Guccini e il suo nome ci riporta inevitabilmente a ripercorrere la nostra vita, gli anni delle lotte studentesche (non importa di quale decennio, lui c’era sempre), le serate in casa degli amici all’università, i concerti, e poi qualche anno dopo a pensare: « Ma il tempo, il tempo chi me lo rende? Chi mi dà indietro quelle stagioni di vetro e sabbia, chi mi riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni, gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti, l’arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti? »
Ci sentiamo davvero legati a doppio filo con le strofe del cantautore modenese, anzi pavanese come ci tiene a sottolineare, tanto che risulta difficile pensare che quello che sta girando nel nostro stereo è veramente l’ultimo disco, il sedicesimo (raccolte e live a parte) per l’esattezza. Siamo affezionati alla sua voce con il forte accento emiliano, al suo quasi borbottare durante i concerti fra un pezzo e l’altro, alle sue esternazioni politiche.
Che poi, politicamente parlando, uno che ha scritto «contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via, la bomba proletaria e illuminava l’aria la fiaccola dell’anarchia » lo immagini vicino a qualche gruppuscolo di estrema sinistra extraparlamentare; invece ha sempre votato per i moderati del centrosinistra e anzi è stato fra quelli contenti della nascita del Pd.
Il fatto è che a Guccini ciò che è sempre interessato è il raccontar storie, e quindi che queste riguardassero l’anarchico che voleva far saltare in aria il treno o il suo vicino pensionato di Via Paolo Fabbri 45 che sentiva iniziare la sua giornata mentre lui tornava all’alba dalle sue notti brave bolognesi, poco cambia.
È probabilmente per questo che quasi nessuno si è mai sentito tradito da Guccini (a differenza di quel che è successo con tanti altri cantautori) perché nelle sue canzoni è sempre stato onesto. Ha raccontato, reinterpretandoli, Cirano e Che Guevara passando per Don Chisciotte e Cristoforo Colombo ma usando la stessa serietà e sincerità che ha messo nel descrivere quella ragazza che «dietro al banco mescolava birra chiara e seven up» di cui si è innamorato e disinnamorato nello spazio di una canzone del juke box.
È stato sincero anche nei pezzi più duri, come Quattro stracci dedicato alla sua ex compagna Angela, qualcuno dice anche troppo.
Francesco Guccini: l’unico cantante che non concede un bis neanche a pagarlo oro, la sua scaletta è quella e si sa, si chiude con La locomotiva. Quando il pezzo è finito inutile stare a domandarsi “ma non ha fatto Farewell” o “ma non ha fatto Canzone quasi d’amore”. Il concerto è finito, andate in pace.
Come tutti i suoi album non è possibile giudicare questo lavoro a un primo ascolto; le canzoni di Guccini ti devono entrare dentro a poco a poco, ascolto dopo ascolto. Poi, ad un certo punto, diventano le tue canzoni, quelle che come dice il suo amico Ligabue non ti tradiranno mai, magari ti tradirà chi le ha scritte e cantate ma loro sono le tue canzoni e sai che sono lì.
Non tutti apprezzano Guccini e di certo qualcuno leggendo queste poche righe che ci siamo sentiti in dovere di scrivere per dire a nostro modo “grazie” a chi ha accompagnato la nostra vita, giudicherà questo modesto tributo semplicemente noioso.
Non ce ne preoccupiamo perché sappiamo bene che «è difficile spiegare, è difficile capire se non hai capito già».
Alessandro Chiometti