Nell’agosto scorso ci eravamo occupati dell’anomalia italiana in fatto di divorzio: tempi lunghissimi, esborsi economici (ed emotivi) ingenti, insopportabili lungaggini legali per porre fine ad un’unione che ormai da tempo non è più tale. La legge attualmente vigente – e che risale al 1970 – impone infatti che i divorziandi siano sottoposti ad un periodo di “decantazione” di tre anni, e che la comunione dei beni sia sciolta solo una volta che l’istanza di separazione è passata in giudicato. Effetto collaterale di questo relitto giuridico è, tra gli altri, l’insorgere di un nuovo trend turistico, quello “divorziale”: per aggirare i tempi (non casualmente) biblici della legge, gli italiani che possono permetterselo, si recano all’estero, ove le pratiche per ottenere lo scioglimento del vincolo sono invece a misura d’uomo.
Qualcosa però si sta forse finalmente muovendo: il 23 febbraio scorso la commissione Giustizia della Camera ha approvato con voto bipartisan un testo unificato che riduce i tempi della separazione da tre a un anno, se non vi sono figli minori, e a due anni in caso vi siano. Inoltre esso anticipa lo scioglimento della comunione dei beni al momento in cui il giudice autorizza i coniugi a vivere separati, ossia in sede di udienza presidenziale. È il “divorzio breve”, proposto dal senatore Maurizio Paniz (PdL) e nato da un compromesso che ha visto Lega e Radicali ai due estremi opposti: la prima, divenuta strenuo baluardo della ragion vaticana, chiedeva la soppressione delle norme di modifica, i secondi la soppressione totale dell’istituto della separazione, che, sia detto per inciso, all’interno dell’Unione europea è ancora vigente solo da noi, in Polonia, e in Irlanda del Nord.
Nonostante la soddisfazione espressa dalla presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, che lo ha definito un «provvedimento di civiltà giuridica», e da Gian Ettore Gassani, presidente dell’Ami (Avvocati matrimonialisti italiani), che ha parlato addirittura di «rivoluzione», è bene non farsi prendere da facili entusiasmi. Questo è infatti il terzo tentativo che si compie per adeguare la legge ai tempi: i precedenti due, risalenti al 2003 e al 2007, già si infransero sulla trasversale rocca del voto cattolico.
Il nuovo testo figlio del compromesso ha passato solo il primo step dell’iter procedurale: deve ora andare al vaglio delle altre commissioni di competenza e poi al Senato, dove l’ineffabile Maurizio Gasparri ha già promesso battaglia: «Sarebbe una legge sbagliata – ha affermato – e se dovesse arrivare al Senato faremo di tutto per non farla approvare».
Non vi è motivo di dubitarne, tanto più che il giornale dei vescovi, attraverso la penna di Viviana Daloiso, ha già definito il testo «dirompente per le conseguenze» e, citando don Paolo Gentili, direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale della famiglia, ha fatto sapere che esso non risolve il problema (dell’aumento dei divorzi?), che la vera sfida è «sostenere le coppie nei loro momenti bui» e che «scegliere di donarsi a un altra persona sapendo che in un anno si può tornare indietro, è molto lontano dal “per sempre” insito nel sacramento». Mentre i laici compiono i propri scongiuri, sperando che qualcuno spieghi ai vescovi che il testo approvato non regolamenta “il sacramento”, ma l’istituto giuridico del matrimonio, e che i cattolici rimarranno liberi di non avvalersene, un’altra voce si è levata con tempismo perfetto. Durante il discorso tenuto alla Pontificia Accademia per la Vita lo scorso 25 febbraio, Benedetto XVI ha sentito l’urgenza di ribadire che «il matrimonio costituisce l’unico luogo degno per la chiamata all’ esistenza di un nuovo essere umano».
La battaglia è dunque ufficialmente aperta. E se nel centrosinistra si ostenta ottimismo e si fa sapere che «ormai i tempi per accorciare il divorzio sembrano maturi», ai cittadini non resta che augurarsi che altrettanto siano i loro rappresentanti.