Englaro non si è mai fermato. La sua battaglia è andata avanti. In silenzio. E ieri i giudici gli hanno dato ragione ancora una volta, condannando la Regione Lombardia a versargli 142mila euro come risarcimento danni. E ribadendo che la figlia Eluana, rimasta in stato vegetativo per 18 anni a seguito di un terribile incidente stradale, aveva pieno diritto a morire in Lombardia. Lì avrebbero dovuto staccarle il sondino naso-gastrico che la alimentava e idratava artificialmente, senza costringere i genitori a sobbarcarsi un drammatico viaggio in ambulanza verso la clinica «La Quiete» di Udine, dove la donna morì la sera del 9 febbraio 2009. Non fu possibile, perché l’allora governatore Roberto Formigoni si oppose — nonostante il chiaro pronunciamento della Corte di Cassazione — facendo emanare al suo braccio destro Carlo Lucchina, direttore generale plenipotenziario dell’assessorato alla Sanità, una nota con la quale si vietava su tutto il territorio lombardo la sospensione delle terapie che tenevano in vita Eluana alla casa di cura Beato Luigi Talamoni di Lecco.
Venne fuori un caso internazionale. Furibonde polemiche politiche, manifestazioni di piazza, fino alla simbolica deposizione delle bottigliette d’acqua sul sagrato del Duomo lanciata da Giuliano Ferrara. Sette anni dopo, ecco la decisione del Tribunale amministrativo della Lombardia, che ha riconosciuto a Beppino Englaro il risarcimento dei danni patiti per quella dolorosa vicenda: 142mila euro l’ammontare della somma che ora la Regione dovrà dargli (a meno che non impugni il verdetto). Così distribuiti: 12.965,78 euro di danno patrimoniale (647,10 per il trasporto della paziente in Friuli, 470 per la degenza e 11.848,68 per il piantonamento fisso), 30mila euro a titolo di «danno iure hereditatis per lesione dei diritti fondamentali della signora Eluana Englaro» e altri 100mila come danno non patrimoniale «da lesione di rapporto parentale». Calcoli che interessano pochissimo a Beppino Englaro.
Per lui, immaginiano, conterà il senso della decisione del Tar, che sta tutto in una frase: «Non è possibile — scrive il collegio presieduto da Alberto Di Mario — che lo Stato ammetta che alcuni suoi organi ed enti, qual è la Regione Lombardia, ignorino le sue leggi e l’autorità dei tribunali, dopo che siano esauriti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, in quanto questo comporta una rottura dell’ordinamento costituzionale non altrimenti sanabile». Tradotto dal legalese: Regione Lombardia avrebbe dovuto ottemperare al verdetto della Suprema Corte. Senza nascondersi, fanno capire i giudici, dietro motivi di coscienza. Perché, come ha sottolineato il Consiglio di Stato nel settembre del 2014, «a chi avanza motivi di coscienza si può e si deve obiettare che solo gli individui hanno una coscienza, mentre la coscienza delle istituzioni è costituita dalle leggi che le regolano».
Nicola Palma su il Resto del Carlino (articolo preso da Eutanasia Legale)