Barbara Spinelli su La Stampa del 30/12/2007
L'irruzione dell'atto di fede nell'agire politico non è un evento nuovo, nella storia contemporanea. È una mescolanza che ci accompagna da parecchi anni, che ha all'origine un profondissimo scontento per come vanno le cose del mondo, e per come disordinatamente sono governate.
Quel che è nuovo, in questa fine d'anno, è la straordinaria
disinvoltura con cui l'uomo politico parla di Dio e del suo intervento
nelle Camere dove siedono i deputati, di Cristo e del suo restare nelle
nostre case o uscirne. Nuovo è il propagarsi di simile commistione
anche nella religione cristiana, anche nell'Europa che sulla
separazione netta tra fede e politica ha costruito la sua idea di
civiltà e di pace.
I motivi di questa naturalezza disinvolta sono molteplici e tra essi c'è probabilmente l'effetto che ha avuto su di noi l'integralismo islamico, l'ammirazione clandestina per la forza impaurente delle sue armi. C'è un uso di Dio che fa proseliti, come nuovissima fede che contamina il pianeta. E lo contamina a dispetto di sconfitte evidenti. Negli Stati Uniti i fallimenti del messianesimo politico di Bush non impediscono il successo di integralisti come Mike Huckabee, candidato alle primarie repubblicane.
In Francia Sarkozy ritiene opportuno correggere la laicità e affermare, a San Giovanni Laterano, che «la Repubblica ha bisogno di credenti». In Italia la disinvoltura è totale, se è vero che una senatrice fino a ieri poco conosciuta, Paola Binetti del Partito Democratico, ritiene plausibile che Dio intervenga di persona, se da lei convocato, nelle decisioni di un parlamento.
Molti parleranno di regressioni, oscurantismi. Ma il fenomeno è assolutamente moderno e ha precise caratteristiche: ovunque si sta diffondendo il bisogno che torni, potente, un credere utile alla politica, sospettata di fiacchezza etica, d'incapacità, d'illegittimità.
Che nelle menti torni a installarsi un senso di ferrea Necessità. Che Dio parli e agisca al posto dell'uomo rovinato. Che il mondo torni a esser leggibile, catalogabile: da una parte i credenti, dall'altra i miscredenti, come in una sorta di terreno, anticipato, apocalittico Giudizio Universale. L'uomo libero è morto, Dio è vivo, tutto è permesso. Per questo il caso Binetti è significativo. La questione del credere o non credere torna a essere centrale, con le menzogne che a essa sono legate. Come scriveva Nicola Chiaromonte negli Anni 50 e 60: «La nostra non è un'epoca di fede, ma neppure di incredulità.
È un'epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine» (i saggi sono raccolti nel volume Credere e non credere, Bompiani 1971). La signora Binetti, di cui non si conoscono opere né scritti, non meriterebbe forse lo spazio che le viene dato. Se glielo si dà è perché è sintomo dei tempi di malafede e disinvolte credenze che stiamo traversando. Nei Viaggi di Gulliver, Swift narra di una guerra furiosa che scoppia tra chi è convinto che l'uovo alla coque si debba aprire dalla punta stretta e chi è teologicamente certo che lo si debba tagliare dalla parte larga. Dio approva chi apre l'uovo dall'alto o dal basso? Cristo sta a casa o, come dichiara Veltroni, è «giusto e legittimo che venga portato \ in politica»? Gli europei si sono scannati, attorno a quisquilie o questioni idolatrate. Se hanno smesso, è per non ricominciare più. Non perché assolutizzare le cose terrene sia retrogrado, ma perché è troppo moderno. La modernità estrema in Europa è questo far coincidere fede, necessità, utilità politica: il Quattrocento, il Novecento, furono evi moderni e di massima barbarie.
Anche la signora Binetti è molto moderna, quando dice che Dio è presente nel Parlamento e con la sua Provvidenza sposta le leggi nella direzione che a lei, senatrice, preme (Il Foglio, 22 dicembre). È in sintonia con lo Spirito dei Tempi, con un Zeitgeist che estende enormemente il regno della Necessità, e che teme il libero pensiero e il suo esser vario, incessantemente. In cuor suo forse la senatrice è convinta, non umilmente ma fieramente, di aderire a qualcosa d'antico, d'eterno.
Ma non è antica, e tanto meno è classica. È moderno pensare che la Repubblica abbia bisogno di credenti, intendendo per credenti coloro che appartengono a una determinata Chiesa. È estremamente moderno dare alla religione una radice identitaria che coincide con una nazione o una terra. Tutte queste idee nel Medioevo non c'erano e con l'universalismo cristiano sono poco compatibili: sono nate con le nazioni, e si sono esasperate con i nazionalismi.
I credenti di questo tipo sono chiamati spesso fondamentalisti ma con i fondamenti religiosi hanno poco a che vedere. Il vero fondamentalista cristiano troverà ai primordi della propria fede un mare di ambiguità, e parole, testimonianze radicalmente contraddittorie. I credenti cui alludiamo sono moderni perché questo loro dover-voler credere rimanda a ideologie chiuse, inaccessibili al dubbio, che escludono il diverso denominandolo miscredente o dissidente. Anche qui Chiaromonte dice l'essenziale, quando denuncia il «Dio Moderno, il solo che oggi universalmente si riconosca»: «Per necessità pratica e non per slancio mistico, s'è creato un Dio.
Dal cuore stesso della situazione storica, dall'impegno dell'uomo di fabbricare lui stesso la propria storia, dalle contraddizioni della realtà e dai suoi drammi, dalle esigenze dell'azione efficace, s'è costituito un Essere Supremo fatto della sostanza stessa degli sforzi umani e posto tuttavia al disopra di essi come loro giudice supremo. È un Dio di fatti, di forze efficaci, di potere: il Dio dell'ateismo integrale». Di qui le menzogne: sono chiamati credenti coloro che credono in questo Dio, esecutore di umani disegni. Tutti gli altri sono non-credenti.
Ciascuno di noi sa che la verità è altra e ne ha prove quotidiane. Vede credenze fortissime nei cosiddetti non credenti, e viceversa. Constata come vi siano laici scettici sulle grandi verità, che credono però senza deflettere in principi di fondo: la lotta alla menzogna, all'ingiustizia, all'illibertà, all'illegalità. Chiamarli non-credenti è un insulto alla propria intelligenza, oltre che a quella altrui. Quando Eugenio Scalfari critica la Binetti, su Repubblica del 27 dicembre, scrive da «non-credente»? Scrive certo da laico, forse da ateo. Ma il suo pensiero e le sue convinzioni hanno un'intensità tenace che tanti credenti neppure conoscono. Lo stesso vale per le critiche di Odifreddi, su questo giornale.
Poi ci sono gli esempi cristiani: Madre Teresa che soccorse i morenti per cinquant'anni senza vedere Dio né riuscire a credere. Teresa di Lisieux ebbe un'esperienza analoga. Il credere è fatto di incertezze, come l'esistenza intera. E ogni autentica fede è paradossale, sperando l'inseparabile. C'è un uso sconcio nella parola «non-credente» che andrebbe evitato, per fedeltà al vero. Perfino parlare di chi «non crede in nulla» è senza senso. Com'è possibile credere in nulla? Nello stesso momento in cui la pronunciamo, questa parola prende forma, ce la figuriamo, e non è più l'ineffabile nulla.
La signora Binetti dice che una mano è di sicuro scesa in Parlamento, grazie alle sue preghiere, conducendolo alla giusta decisione. Una decisione che concerne gli omosessuali e le idee che la senatrice, forte del suo sapere, si è fatta di essi: sono malati, da curare. Se così stanno le cose, il Parlamento non è il suo posto ma anche la sua religiosità suona falsa.
Non è un atto di fede ma un atto di forza, che esclude chi non appartiene alla sua Chiesa e alle sue persuasioni. La mano di Dio, per il credente autentico, non la si percepisce e ancor meno la si capisce. Parla come noi? pensa come noi? Chissà. Sant'Agostino nel cinquantaduesimo sermone è chiaro in proposito: «Si comprehendere potuisti, aliud pro Deo comprehendisti». Se hai potuto comprendere, hai compreso un'altra cosa al posto di Dio.
Questo comprendere un'altra cosa al posto di Dio è l'essenza dell'integralismo moderno. È cercare in Dio le ragioni di una politica, e arrogarsi una giustificazione esterna che altri – non credenti, atei, agnostici – non possiedono. È mettere la religione non tanto al centro, ma al posto della pólis e dei suoi ordinamenti. È sottrarre alla potestà di quest'ultima una serie di leggi che, considerate naturali, vengono connesse non all'umano legiferare ma a Dio e ai suoi rappresentanti.
Viviamo in un'epoca troppo bollente, per prendere queste convinzioni alla leggera. Una parte non irrilevante dell'Islam è cattivata da esse, adoperando politicamente Dio. Una parte dell'ebraismo estrae dalle Sacre Scritture la propria concezione d'Israele. Bush è partito in guerra invocando Dio. Non possiamo prescindere da quel che accade intorno a noi, quando parliamo di radici cristiane d'Europa e costringiamo una religione universale dentro chiuse geografie.
Non possiamo parlare dell'omosessualità come di una malattia, dopo quel che Hitler ha detto di essa. La memoria, non possiamo liberarcene come fosse un'inutile verità: se esistono parole tabù quando si parla di ebrei, debbono esisterne per gli omosessuali, i Rom, i malati mentali. Anche questa smemoratezza è Spirito dei Tempi, anche con essa la senatrice è in conformistica armonia. Altro è lo spirito classico: che è quello che dura e ci è accanto sempre. A volte può apparire perfino anacronistico, non in fase col tempo, e diventa poi classico per questo.
Non è relativismo, avere dubbi su una fede così connessa alle vicende terrene da secernere la presunzione di poterle cambiare con miracoli, preghiere, atti di forza. È avere coscienza dei propri limiti, assolutamente. È capire che non abbiamo diritto di comprendere un'altra cosa al posto di Dio, e darle lo stesso il nome di Dio.