I film che appartengono alla tua storia, quelli con cui sei cresciuto, che ti hanno regalato emozioni forti, che hanno segnato la tua vita e sei comunque contento di aver visto si dividono in due categorie.
Quelli che a rivederli oggi dici: “Mah, certo che è invecchiato male questo film, e pensare che mi piaceva così tanto…” e quelli che ogni dannatissima volta che li rivedi esclami: “Capolavoro!”
E con questi non c’è nulla da fare o modo di resistere, anche se sono le due del mattino e li trovi appena iniziati su un canale qualunque… addio notte di sonno.
Ecco, praticamente tutti i film di Sergio Leone, rientrano in questa seconda categoria.
Inutile fare graduatorie di bellezza e di epicità, ogni spettatore ha nel cuore le sue battute preferite o le famose inquadrature “primissimo piano” marchio di fabbrica del regista (“Voglio una fottuta inquadratura alla Sergio Leone” sbotta spesso Quentin Tarantino con i suoi cameramen).
Come dimenticare l’incredibile poesia contenuta in scene come quella del confronto fra Tuco e suo fratello Padre Ramirez ne Il buono il brutto e il cattivo? O quella in cui Noodles spiega a Max cosa significa essere amici in C’era una volta in America?
Ogni film di Sergio Leone merita un saggio cinematografico. Tuttavia è indubbio che dal punto di vista politico Giù la testa sia il film più impegnato del regista romano.
Ambientato negli anni della lunghissima Rivoluzione Messicana, e nonostante alcuni anacronismi e incongruenze si può certamente definire un film storico.
Fin dalle prime scene risulta ben chiaro a chi, fra i peones e gli aristocratici, il regista vuol fare convergere le simpatie del pubblico e, non a caso, si apre con la lunga citazione di Mao Tse-Tung: “La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza.”, tuttavia è tutt’altro che apologetico. Anzi, è uno spaccato cinico, disincantato e privo di retorica.
Il confronto fra il peon Juan Miranda (Rod Steiger) e il misterioso dinamitardo irlandese Sean Mallory (James Coburn), che è passato dalla rivoluzione irlandese a quella messicana “credendo solo nella dinamite”, è un continuo spunto di riflessione politica. E se era attuale nel 1971 è ancora più attuale oggi.
Esplicativa in tal senso la scena in cui Sean legge il manuale rivoluzionario di Bakunin e spiega a Juan che dovrebbe essere contento di essere diventato, grazie a lui, un “grande eroe della rivoluzione”. Sean sorride scanzonatamente come è solito fare ma, per tutta risposta, gli arriva un arrabbiatissimo monologo: “Rivoluzione? Per favore, non parlarmi tu di rivoluzione […] Io so quello che dico, ci son cresciuto in mezzo, alle rivoluzioni. Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: ‘Qui ci vuole un cambiamento!’ e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono intorno a un tavolo, e parlano, parlano, e mangiano. Parlano e mangiano! E intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzione… E porca troia, lo sai che succede dopo? Niente… tutto torna come prima!”
L’irlandese resta quasi stordito dal flusso di parole di Juan, il suo sorriso scompare poco a poco, quindi guarda il libro di Bakunin e lo butta via. In quel momento ci sembra di sentire finanche i pensieri inespressi del rivoluzionario irlandese che guarda il messicano esterrefatto. “Come può un semplice peon dare a me delle lezioni sulla rivoluzione?” Ma istantaneamente, come Sean del resto, ci vergogniamo del nostro pensiero. “Perché mai non potrebbe farlo? Perché è un povero contadino? E che rivoluzionari saremmo allora?” L’amara lezione è evidente: se si vuole che una rivoluzione funzioni coloro che leggono i libri e la teorizzano dovrebbero ascoltare di più le persone in nome di cui la rivoluzione pretenderebbe di essere fatta.
La distruzione del mito rivoluzionario arriva al suo apice quando il comandante dei rivoluzionari di Mesa Verde, dove le vicende del film si svolgono, il dottor Villega (Romolo Valli), tradisce i suoi compagni indicando ai soldati messicani i rivoluzionari da fucilare. Sean Mallory, nascosto fra la gente, lo vede a fianco del temutissimo Gunther Reza. Villega aveva subito evidenti torture ma ciò non lo può assolvere agli occhi dell’irlandese che per una situazione analoga aveva ucciso il suo migliore amico in Irlanda.
Tuttavia Giù la testa non nega la necessità della Rivoluzione. Anzi: la rivoluzione è un dovere.
Lo capisce Villega: tornato in libertà incontra Sean che chiede il suo aiuto in una missione suicida nel guidare una locomotiva contro il treno con cui stanno arrivando i soldati messicani. Salito a bordo capisce che Sean l’ha scelto perché sapeva del suo tradimento, ammette di aver tradito per le torture ma giura che le sue idee non sono cambiate: allora nonostante non sia obbligato dall’irlandese sceglie di perire nell’esplosione della locomotiva purché il mito della rivoluzione non vada sporcato dal suo tradimento.
Sean lo sa dall’inizio. E anche se ormai crede solo nella dinamite, anche se soffre per tutto ciò che gli è costato, ogni sua azione è volta solo al fine rivoluzionario.
E per ultimo lo capisce anche Juan che la rivoluzione è un dovere, nell’apoteosi finale, epica e drammatica ma anche ironica al tempo stesso (cosa ricorrente nei film di Leone) la sua faccia smarrita e perplessa ce lo ricorda: é indubbiamente una fregatura la rivoluzione, ma non farla è un alternativa peggiore.
Qualche curiosità.
Sergio Leone per la quarta volta non avrebbe voluto girare “un altro western”. Dopo il successo di Per un pugno di dollari (1964) girò Qualche dollaro in più (1965) solo per uscire dalla stasi creativa e per fare un dispetto alla sua vecchia casa di produzione come dichiarò spesso.
Avrebbe poi voluto cambiare decisamente genere ma la UA fece un’offerta “che non si può rifiutare” quindi nacque Il buono il brutto e il cattivo (1966).
Concentrato su quel che era “il progetto di una vita”, ovvero una storia sulla malavita newyorchese di inizio secolo (lo realizzerà solo nel 1984) arrivavano sempre e soltanto offerte per nuovi western che regolarmente rifiutava, ma quando la Paramount mise sul piatto Henry Fonda, il suo attore preferito che aveva sempre sognato di dirigere, capitolò e realizzò C’era una volta il West (1968).
Sergio Leone e il suo gruppo di lavoro non stavano con le mani in mano e producevano progetti anche per altri registi (come lo diventeranno Il mio nome è nessuno, di Tonino Valerli o Un genio due compari e un pollo, di Damiano Damiani). Di loro produzione il soggetto-sceneggiatura di Giù la testa era pronto e messo a disposizione di Sam Peckimpah ma questa volta l’aut aut fu dato dagli attori. Coburn e Steiger volevano essere diretti da Leone o non se ne sarebbe fatto nulla. Ed eccolo di nuovo dietro la macchina da presa a dirigere un western.
A proposito degli attori.
Rod Steiger aveva voluto Leone ma Leone non voleva Rod Steiger… fin da quando pensava di lasciare il film in mano altrui infatti non era certo lui la prima scelta di Leone che avrebbe ripreso volentieri Eli Wallach, il quale ci rimase molto male nonostante le scuse del regista. Steiger comunque, anche se di origini tutt’altro che messicane, ha qui dato una delle sue migliori prove di adattabilità: è quasi irriconoscibile rispetto al ruolo dello sceriffo razzista di “La calda notte per l’ispettore Tibbs” con cui aveva vinto l’Oscar due anni prima.
James Coburn invece era stato scelto da Sergio Leone al posto di sua maestà John Wayne preferito dalla produzione americana, che però evidentemente si rese conto che Il Duca nei panni di un rivoluzionario ci sarebbe stato proprio male.
Dopo questo film passeranno tredici anni per l’uscita del nuovo film con Sergio Leone regista, parliamo ovviamente di C’era una volta in America. Come dicevamo “il progetto di una vita” per il regista romano; tanto atteso, desiderato, e studiato in ogni scena con una pignoleria che rasentava la follia, sarà l’unico mezzo flop al botteghino nella carriera di Sergio Leone e raccoglierà pessime critiche soprattutto in Usa. Poi divenne un mito.
Ma questa è un altra storia.
Alessandro Chiometti