Il giorno in cui Benedetto XVI ha annunciato al mondo le sue dimissioni cadeva anche l’anniversario della firma dei Patti Lateranensi e della prima apparizione della Madonna di Lourdes. Alla notizia già sufficiente in se ad accendere la pirotecnica fantasia dei giornalisti si sono aggiunte quindi due ricorrenze che riguardano ambedue la Chiesa cattolica, di fatto una vera manna dal cielo per coloro che vedono ovunque complotti, cospirazioni e significati nascosti.
Passata l’incredulità iniziale e lo sgomento, sentimenti d’obbligo in questi casi, è sopravvenuta una più pacata riflessione anche da parte di chi, come noi, non si lascia troppo coinvolgere emotivamente dalle vicende d’oltretevere.
Beh, non ci crederete, ma ho provato simpatia per le vicende umane di Joseph Ratzinger. Per questo intellettuale catapultato su un seggio più grande di lui, costretto a mettersi in mostra, a proporsi, presentarsi, esporsi, lui che – è così evidente – è un timido inguaribile, ma che si è sforzato di non esserlo, per amore del suo Dio, di fronte alle folle plaudenti e alla ostentazione a cui lo hanno costretto le sue liturgie.
Ho provato comprensione per la sua vicenda umana e apprezzamento per il senso di responsabilità dimostrato. Le motivazioni che ha addotto a spiegazione della sua decisione sono semplici, ineccepibili e logiche. Ha dimostrato senso della misura e dei propri limiti.
In simili incarichi il rischio di ritenersi onnipotenti e davvero degli alter-ego di Dio in terra è sempre presente. Basta vedere quello che è accaduto al suo predecessore che si è fatto trasportare in lungo e largo per il pianeta ostentando il suo corpo malato, bloccato da una invalidità inarrestabile e lacerante, forse convinto che la sola esibizione del suo corpo irradiasse grazia e benessere intorno a sè.
Joseph Ratzinger ha invece, più modestamente, temuto che il declino fisico lo rendesse incapace di governare una Curia romana sempre più turbolenta e indisciplinata, lacerata da conflitti e lotte intestine.
Ma se ha temuto di non poter tenere fermamente le redini della sua Curia, il Papa non ha mai temuto di mantenere la dottrina cattolica nei suoi giusti binari, convinto che, in caso di inabilità, avrebbe comunque parlato in sua vece lo Spirito Santo, sostenuto dalla particolare grazia che Dio dispensa, a far tempo dal 1870, ai Pontefici dal momento della loro elezione.
Sembrava pacifico che questa particolare condizione d’infallibilità fosse uno stato di grazia definitivo, una maggior qualità che il Papa acquisisce con la sua nomina, un vero e proprio “salto ontologico” del Papa rispetto ai Cardinali, ai Vescovi, ai Sacerdoti e al Clero tutto. Invece le inaspettate dimissioni papali hanno imposto una grave domanda: l’infallibilità si conserva sino alla morte del Pontefice oppure è temporanea? I teologi si sono espressi senza tentennamenti per la seconda risposta; pertanto allo scadere delle ore 20:00 del 28 febbraio 2013, né un attimo prima né uno dopo, il Padreterno priverà il Papa dimissionario della sua capacità di essere infallibile in materia di religione. Avremo così che al povero Joseph Ratzinger, sicuramente amareggiato e intristito dalla dolorosa constatazione del proprio inesorabile declino fisico, verrà inflitta l’ulteriore umiliazione di una degradazione sul campo in quanto, direbbe un burocrate, sono venute meno le condizioni per il mantenimento di quel particolare privilegio. Con la perdita dell’assistenza divina, le capacità di discernimento e di giudizio di Benedetto XVI non potranno che essere ulteriormente ridotte.
E questo, debbo dire, me lo rende ancor più simpatico.
Dagoberto Frattaroli