Partiamo da una constatazione: le razze umane esistono?
No e sì. No: dal punto di vista biologico è chiaro ormai da cinquant’anni che nell’uomo non esistono gruppi distinti, simili a quelli che in altre specie chiamiamo razze. Possiamo raggruppare gli umani in tanti modi (per esempio mettendo insieme quelli che hanno la pelle di colore simile, o quelli che hanno lo stesso gruppo sanguigno), ma questa classificazione non ci permette di prevedere poi come si raggrupperanno se consideriamo altri caratteri (per esempio la tendenza a diventare calvi, o la capacità di digerire il latte da adulti). Non siamo tutti uguali, anzi. Ma siamo così diversi che non riusciamo a suddividere l’umanità in gruppi distinti e non arbitrari. Ma anche sì: le razze esistono e sono nella nostra testa: nel modo in cui guardiamo e classifichiamo il nostro prossimo.
Quindi oggi c’è chi fa ricorso a categorie, ad etichette che richiamano la classificazione in razze? Questo modo di guardare il mondo persiste anche all’interno della comunità scientifica?
Sì, queste categorie dimostrano di essere molto persistenti in certe aree della scienza. Per esempio, negli Stati Uniti si parla di medicina razziale, indicando la tendenza di certi medici a tener conto della razza del paziente nel fare le diagnosi e nel prescrivere le terapie. Ma questa "razza del paziente", come dicevamo, è una convenzione, nella quale convergono considerazioni biologiche e sociali. Pensiamo a Barack Obama: tutti lo consideriamo il primo presidente nero nella storia degli USA, ma sua madre è bianca, del Kansas. In che modo un medico possa tener conto del complesso cocktail di fattori ereditari che i nostri tanti antenati ci hanno trasmesso è un mistero. I risultati di un tale pasticcio non possono che essere pasticciati.
Tra gli esseri umani prevale ciò che ci differenzia o ciò che ci unisce?
Oltre 98 per cento del nostro DNA è identico a quello degli scimpanzè, e quindi le differenze fra noi umani stanno in una parte (circa la metà) di quel 2% che resta. Noi umani siamo molto simili fra noi, circa tre volte di più di quanto non lo siano fra loro gli scimpanzè. E le nostre differenze stanno soprattutto all’interno delle popolazioni.
C’è quindi molta differenza con un qualsiasi vicino di casa? E se questa persona fosse immigrata, potremmo dire lo stesso?
Se poniamo pari a 100 le differenze genetiche fra noi e una persona di un continente molto lontano, quelle fra noi e un altro membro della nostra popolazione sono, in media, pari a 85, quindi poco meno. Quindi, mediamente, gli immigrati sono un po’ più diversi di noi dei nostri vicini, ma solo di un po’, al massimo di un 15%. Non tutti i continenti sono però uguali: in Africa c’è molta più variabilità che altrove, e di recente è uscito un articolo che dimostra come fra i DNA due Khoisan della Namibia ci siano differenze più grandi che fra loro e un europeo o un asiatico. Questo è uno dei dati (non l’unico) che interpretiamo come prova del fatto che l’umanità si è evoluta e differenziata in Africa, e poi piccoli gruppi di africani sono usciti, circa 60 mila anni fa, e hanno rapidamente colonizzato tutto il pianeta.
Per quale motivo allora si fa ancora ricorso al termine razzismo? Chi sono i razzisti?
I razzisti sono molti di noi, e forse tutti, sia pure in maniera differente. Siamo razzisti quando non consideriamo le persone per quello che sono, individui, ma come appartenenti a un gruppo (gli albanesi; gli arabi; i terroni) su cui il giudizio è dato per scontato, senza tenere conto che anche fra loro esistono tantissime differenze: nel DNA, nell’aspetto fisico, ma anche nel carattere, negli stili di vita, nel tifo calcistico. Razzismo è un termine ancora usato perché ce n’è in giro tantissimo.
Il richiamo all’identità come appartenenza ad un gruppo (noi contro loro, quindi l’uso del pregiudizio) potrà portare ad una differenziazione per razze? Guardando in profondità alla storia dell’umanità, cosa emerge?
No, non è certo il richiamo all’identità che impedisce ai maschi della nostra specie di accoppiarsi con femmine della nostra specie, indipendentemente dalla loro origine, producendo bambini allegramente ibridi. E questo è quello che è successo per decine di migliaia di anni. Il richiamo all’identità, piuttosto, ci appiattisce e ci isola dal resto del mondo. Identità definisce il complesso di caratteristiche che ci contraddistinguono, quando non addirittura ci definiscono (es.: carta d’identità). È uguale al singolare e al plurale, il che provoca equivoci. Alcuni pensano che l’identità sia una cosa sola, e addirittura si radichi in un preciso luogo geografico, che è poi quello di nascita, che è poi quello dove da sempre sarebbero vissuti gli antenati: sangue e suolo, come dicevano i nazisti che di queste cose se ne intendono. Scivolando sempre più nell’equivoco, questo suolo ove affonderebbero tutte le radici dell’identità (al singolare) determinerebbe infallibilmente filosofie di vita, gusti gastronomici e musicali, stili di guida, perversioni dell’eros, passioni sportive, credenze religiose, tendenze criminali, valori etici ed etilici, vezzi lessicali e bizzarrie dell’abbigliamento: tutti coerenti l’uno con l’altro. Ma non è vero, perché non stavano certo tutti nello stesso posto i nostri sedici trisavoli, i nostri trentadue quadrisavoli, e men che meno i nostri 1024 antenati di trecento anni fa. Per non parlare di quello che apprendiamo dagli altri nel corso della vita, e che non dipende certo dalla nostra genealogia. È perciò evidente che ciascuno di identità ne ha tante, e costringere dentro a un’unica definizione una persona, o peggio ancora un gruppo di persone, è operazione insensata. Scrive Amartya Sen: «La stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis».
Tante identità, dunque, e non una sola?
Esatto.
Guido Barbujani intervstato da Marco Carniani