«Se cominciamo a chiederci se abbiamo il diritto di disegnare o meno Maometto, se è pericoloso oppure no, la domanda successiva sarebbe “possiamo rappresentare dei musulmani nel giornale?”, e quindi la domanda diventerà “per caso possiamo rappresentare degli esseri umani nel giornale?” ecc. E alla fine non disegneremmo più niente, e il manipolo di estremisti che si agitano nel mondo e in Francia avrà definitivamente vinto!».
Non poteva dirlo meglio il direttore della rivista satirica Charlie Hebdo, nell’occhio del ciclone per le vignette “blasfeme” su Maometto che stanno infiammando il dibattito sulla libertà di satira in Francia e nel mondo intero.
Eppure, anche tra chi non appartiene ad alcuna chiesa, si levano voci di dissenso sulle pubblicazioni che offenderebbero il sentimento religioso. Bene, allora forse è il caso di stilare una classifica dei sentimenti e indicare quali possono essere sbeffeggiati dalla satira e in quale misura (stante poi il poter misurare col metro l’offesa), e quali no. Perché non si capisce come mai un politico, una star, un partito o una categoria di persone possano essere caricaturizzati mentre la religione e le sue icone sono intoccabili (intouchables, come dice Charlie Hebdo). C’è sentimento e sentimento? La satira politica non offende e quella religiosa sì?
Il punto, almeno tra chi non coltiva un culto, non è questo, ma piuttosto una strisciante confusione tra causa ed effetto che fa percepire la prima come deprecabile se il secondo degenera. In altri termini, se la raffigurazione di un ridicolo Maometto non scatenasse la violenza fondamentalista islamica nessuno ci troverebbe qualcosa da ridire, così come succede con le tante “profanazioni” di Cristo in croce che però difficilmente portano a bombe e stragi (conducevano alla tortura e al rogo solo fino a qualche centinaio di anni fa, ma questo è un altro discorso). I cristiani storcono il naso, si girano dall’altra parte e se offesi ricorrono ai tribunali. Idem per le eventuali denigrazioni politiche. Sarà poi la legge a giudicare se si tratta di satira o diffamazione.
Sembra quindi che la differenza tra satira “buona” e satira “cattiva” la faccia la reazione, non l’azione in sé. E questo a prescindere dal buon o cattivo gusto del vignettista di turno. Un po’ come succedeva negli anni della rivoluzione femminista. Le minigonne erano tollerate (se pur obtorto collo) dai benpensanti, salvo poi venir additate come “giusta causa” in caso di violenza sessuale. “Se l’è cercata, visto come andava in giro” è l’aberrante frase che abbiamo sentito in più di un processo per stupro. Mutatis mutandis, lo stesso discorso lo sentiamo oggi a proposito delle violenze fondamentaliste “ingenerate” dalle pubblicazioni blasfeme, come se la brutalità possa avere una qualche forma di giustificazione dovuta alla provocazione.
Il discorso si sposta quindi dall’effetto, orrendo e ingiustificabile, alla causa, la libertà di satira.
E invece no. La libertà di espressione va difesa tanto quanto va condannata senza scusanti l’azione letale di chi si sente autorizzato alla strage in nome di dio o di qualsiasi “sentimento” sul quale si sente offeso. In questo senso le parole del nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi non rassicurano certo: «Ci sono dei sensazionalismi irresponsabili da parte di chi utilizza spesso a proprio vantaggio personale, anche nel mondo occidentale, queste grandi sensibilità [religiose, ndr] che devono essere rispettate». C’è sensibilità e sensibilità, dunque e quella religiosa non può essere toccata pena la strage (per “irresponsabilità” di chi osa il dileggio). Il che significa dare dignità a folli gesti di pazzi scatenati colpiti nella loro “sensibilità”. Che a questo punto, per estensione, potrebbe essere non solo religiosa, ma anche politica, sessuale, di appartenenza a una qualunque categoria ideologica, sociale, di pensiero.
«E alla fine non disegneremmo più niente, e il manipolo di estremisti che si agitano nel mondo e in Francia avrà definitivamente vinto». Appunto.
Cecilia Calamani – Cronache Laiche