Christopher Nolan non ha bisogno che si esalti per l’ennesima volta la sua straordinaria capacità di rileggere i generi – in questo caso il war movie sul secondo conflitto mondiale. Non ha bisogno che si parli ancora della sua maestria nel raccontare storie sfasando i piani temporali, blindandone la tenuta narrativa con meccanismi a orologeria. Tanto meno ha bisogno che si esaltino le sue doti puramente registiche, capaci di rendere claustrofobico un film che si svolge su tre livelli – terra, mare, aria – raccontandoti la stessa storia dalle tre angolazioni con un andamento diacronico, e con un uso dirompente del contrasto tra silenzio e rumore, tra gesto e parola.
Sotto questi aspetti Dunkirk è l’ennesimo film di Nolan indimenticabile, nel senso letterale di impossibile da dimenticare, che resta impresso a fuoco nell’immaginario cinematografico, e costringe i successori a un confronto diretto.
Ma c’è dell’altro che colpisce, e spinge a una riflessione su quello che accade oggi in Europa e perfino quaggiù nella sua propaggine meridionale.
Dunkirk per un verso potrebbe raccontare la Gran Bretagna ai tempi degli attentati terroristici dell’ISIS. L’epoca in cui i cittadini sono esposti ai colpi di un nemico invisibile, che può essere ovunque. In tutto il film i tedeschi non sono mai nominati. Sono «il Nemico». E non compaiono mai. Sparano da punti nascosti, oppure dal cielo, o da sott’acqua. Ma sono del tutto invisibili e disincarnati. Non è dei tedeschi che vuole parlarci Nolan. Né di altri nemici particolari. Ciò che mostra è l’umanità sotto minaccia. Un’umanità sconfitta, derelitta, fiaccata nel morale, e pronta a tutto per salvarsi la pelle.
Non proprio a tutto. C’è qualcuno che si lascia prendere dal panico e si disumanizza completamente, cedendo al mors tua vita mea, e magari individuando nell’allogeno (un francese) la zavorra di cui sbarazzarsi per avere una possibilità in più. Ma c’è anche chi afferma che quel principio non è giusto: «It’s not fair». Non è giusto trovare un capro espiatorio in un altro povero cristo che sta solo cercando come te di salvarsi. Quelle centinaia di miglia di soldati inermi, in attesa di un passaggio per l’Inghilterra, non possono non far pensare alla città dei profughi di Calais, che meno di un anno fa sorgeva proprio sulla sponda francese della Manica e raccoglieva i fuggiaschi delle mille battaglie perse – contro la guerra, contro la persecuzione, contro la miseria.
Perfino il personaggio più retorico, l’ammiraglio che sovrintende all’evacuazione (un bravissimo Kenneth Branagh), condivide l’idea che non sia giusto lasciare indietro qualcuno solo perché non inglese, e sceglie di restare fino all’ultimo per provare a imbarcare quanti più francesi sia possibile.
It’s not fair. C’è un elemento morale che non può essere cancellato dalla guerra. Restare umani è soltanto questo: resistere alla paura e impedirle di trasformarci in bestie. Cioè nei nazisti di noi stessi.
Sembra proprio questo il messaggio veicolato dal film di Nolan. Al netto delle manifestazioni di coraggio, del grande slancio patriottico delle imbarcazioni civili che andarono a recuperare “i nostri ragazzi” a Dunkirk e li riportarono a casa, c’è il richiamo a un senso prepolitico di giustizia. L’umanesimo contro l’antiumano.
Ecco perché il film parla anche dell’Italia di oggi e di tutto l’Occidente «assediato» dai profughi e minacciato dai nazislamisti, cioè dai propri stessi spettri, dalla propria nemesi post-coloniale.
Il celeberrimo discorso di Churchill che chiude il film («Combatteremo sulle spiagge…»), e nel quale si sono cimentati negli anni fior fior di attori che hanno interpretato Sir Winston, viene messo in bocca a un giovane soldato, che lo legge sul giornale. Non è la voce inconfondibile e biascicata del vecchio Winnie, e nemmeno la prova mimetica di un grande attore, ma la voce di un ragazzo. In bocca a lui le famose parole «We shall never surrender!» suonano pacate, cariche della stanchezza di un reduce che sa di avercela fatta soltanto per adesso e che la lotta in realtà è appena cominciata.
Ecco, la lotta continua. Qualcuno si era illuso che certi sentimenti e idee fossero state sepolte sotto le macerie della Seconda guerra mondiale, che appartenessero al passato o alle sue sopravvivenze nostalgiche e residuali. «Tu che credevi nel progresso e nei sorrisi di Mandela…», canta il saggio Brunori Sas. Per quanti anni, perfino in Italia, dove il fascismo è nato e dove il neofascismo ha avuto e ha un ruolo pesantissimo, gli antifascisti militanti si sono sentiti dire che erano ancorati a vecchie contrapposizioni, che bisognava andare oltre. In fondo erano «ragazzi» anche quelli di Salò, disse un giorno il presidente della Camera Luciano Violante. Anni dopo qualcuno è giunto a dire che se destra e sinistra sono contrapposizioni superate, anche quella tra fascisti e antifascisti lo è. E tanti saluti alla storia.
Sì, tanti saluti. In questi anni di esplosione del dibattito su migrazioni, sbarchi, xenofobia, e di progressivo ritorno in auge di certi pensieri neri, nessun regista o produttore italiano ha nemmeno provato a guardare indietro alla nostra storia. Nell’immaginario mediatico seguita a non comparire la nostra vicenda di colonialisti in Africa (Eritrea, Libia, Etiopia, Somalia) o di invasori nei Balcani (Jugoslavia, Albania, Grecia). Si seguita a fingere di essere sempre stati un paese di emigranti e non già anche un paese di oppressori razzisti, perché nessun senso di colpa/responsabilità può essere innescato nella coscienza nazionale. Gli italiani sono sempre stati vittime della storia. Vittime della povertà, dell’ignoranza, di Mussolini, di Hitler, degli Americani, del Pentapartito, di Berlusconi, di Grillo… Vietato voltarsi indietro per cercare qualcosa di più. Gli unici eroi possibili sono i poliziotti e i giudici antimafia, i tutori della legalità contro i cattivi mafiosi.
Ma prima della legalità ci sarebbe la giustizia, l’equità. Il giusto e l’ingiusto. Concetti assai più complessi, che implicano una presa in carico di responsabilità, appunto, ben più della mera ubbidienza e applicazione delle leggi, che in certi momenti storici sono state anche leggi speciali e leggi razziali, e sono state combattute da bande di illegali.
It’s not fair. In Gran Bretagna i conti con il passato qualcuno li ha fatti e continua a farli. E nell’epoca degli attentati e del sindaco musulmano di Londra il più geniale regista britannico fa un film in cui afferma la necessità di salvarsi il culo il più collettivamente possibile. Nolan ci dice che il valore aggiunto sta in questo: nel farlo. È in quell’agire per salvare il prossimo che si riafferma l’umanità contro il nazismo, ma anche contro il cinismo e la realpolitik (Churchill si sarebbe accontentato di salvare un decimo di quei ragazzi).
Assunzione di responsabilità, anche tra le generazioni. Quella del borghese già attempato che dice più o meno: «Sono stati uomini della mia età a mandarvi in guerra, non vedo perché adesso non dovremmo cercare di salvarvi.» Si dovrebbe accostare questo gentleman, che con la sua barca da diporto e senza nemmeno allentare il nodo alla cravatta sfida la Luftwaffe e la Kriegsmarine per salvarne quanti più possibile, a figure prosaiche come Poletti e Minniti, per vedere l’effetto che fa.
Così come bisognerebbe considerare che il film di Nolan dice una cosa chiara e tonda. L’antiumano va combattuto senza quartiere, dentro e fuori di noi. Sappiamo che sarà una lotta lunga, generata da una sconfitta, da una rotta, quella nella quale ci troviamo e nella quale si trovò l’Europa nel 1940, sulla spiaggia di Dunkirk. Dopo gli anni di liberismo selvaggio e dopo gli anni della crisi del liberismo; dopo i diktat e i commissariamenti della BCE; davanti non abbiamo le meravigliose sorti e progressive dell’Europa Unita, già morta e sepolta. Abbiamo anni di lotta durissima contro il nuovo nazismo sorgente su entrambe le sponde dello «scontro di civiltà», con la consapevolezza che l’unico scontro di civiltà da combattere è proprio questo.
Si tratta di resistere alle pulsioni che risorgono dalle fogne in cui erano state sprofondate. Il cinismo o la sprovvedutezza di chi seguita a parlare del nazifascismo come di qualcosa pertinente il passato, sono parte consistente del problema. A spaventare non è la liaison con gruppi o gruppetti di estrema destra ormai perpetrata da vari esponenti del sedicente centrosinistra, e nemmeno la consistenza numerica dei suddetti gruppi, quanto piuttosto il fatto che questa apertura all’antiumano in nome del post-ideologico strizza l’occhio a pensieri e atteggiamenti che si diffondono nella società. La società postmoderna che si vuole aconflittuale e dove c’è posto per tutti.
La politica miserabile non fa che adeguarsi. Invece di chiamare alla resistenza gli uomini e le donne di buona volontà, invece di rafforzare la barriera culturale e politica, preferisce blandire l’onda montante dell’odio per gli straccioni stranieri, assai meno impegnativo e più facile da gestire dell’odio per le banche (dai risvolti sistemici e anticapitalistici), durato appena qualche anno.
Ecco allora che il film di Nolan rappresenta bene dove siamo adesso. Su una spiaggia desolata, bersagliati da ogni parte da bombe e proiettili e pulsioni antiumane. Non ancora annientati, però. Anche dalla più cupa sconfitta infatti può nascere una vittoria. Dunque, senza fanfare e senza enfasi retorica, dalla spiaggia di Dunkirk è ancora possibile e necessario dirsi l’un l’altro – e far sapere al nemico – che non ci arrenderemo mai.