Drappi rossi alle finestre e flash mob per dire basta alla violenza sulle donne: l’hashtag #saranonsarà dilaga sui social mentre l’omicidio della studentessa romana diventa terreno di facile demagogia per le elezioni capitoline. Attenzione, le donne italiane sono in pericolo! La scoperta straordinaria non risparmia i media nostrani, quegli stessi che celebravano il brutale assassinio di Sara ritraendola accanto all’uomo che l’ha bruciata, stretti insieme post mortem quando lei non lo voleva vicino neanche da viva. E così, di colpo si ricordano che esiste la violenza sulle donne. Fioriscono i dossier sui numeri dei “femminicidi” mentre la notizia di un altro aguzzino che ha tentato di avvelenare la compagna incinta viene promossa dall’abituale cronaca alla prima pagina.
Un allarme rosso destinato a durare qualche giorno, giusto il tempo che l’italiano medio sazi la sua morbosa curiosità attraverso la dovizia di particolari generosamente messi a disposizione e si chieda se è meglio la castrazione chimica, l’ergastolo o la pena di morte in un Paese in cui se ti danno vent’anni per omicidio, dopo dieci esci per buona condotta e magari ammazzi qualcun altro.
La protesta di piazza, reale o social, farà la stessa fine. Perché dire basta o dare la caccia al mostro non ha alcun potere taumaturgico. Di mostruoso, qui, c’è una cultura sessista millenaria che trova il suo aberrante acme nell’assassinio delle donne passando attraverso maltrattamenti e violenza, fisica o psicologica, che si consumano abitualmente nell’ordinarietà dei nuclei familiari o delle relazioni uomo donna e al di là dei riflettori della stampa e dell’opinione pubblica. È una cultura patriarcale e trasversale, perché donne e uomini concorrono nella stessa misura a perpetuarla con il linguaggio, il comportamento, gli insegnamenti stessi che danno ai loro figli. Ecco da dove vengono i mostri.
Perché se il vigile che ti fa una multa passa per stronzo, la vigilessa per troia; se un figlio cambia una ragazza al giorno è l’orgoglio dei genitori, se lo fa una figlia è una troia che va rieducata anche con la coercizione; se un uomo tradisce è solo una scappatella, se lo fa una donna è perché è troia; se un uomo fa carriera è perché è bravo o casomai raccomandato, viceversa una donna l’ha certamente “data” a qualcuno (e quindi torniamo al punto, è una troia). Le vite delle donne sono identificate, e stigmatizzate all’occorrenza, nelle loro relazioni con gli uomini. Non sono esseri a sé, non hanno la stessa indipendenza, non possono uscire fuori da un circuito relazionale che le vede prima fidanzate, mogli e madri e poi, solo dopo, persone. Humus fertile in cui il sessismo nostrano ha potuto crescere e pascersi per un paio di millenni, neanche a dirlo, il cattolicesimo. A iniziare da Eva che ci ha condannato alla vita terrena per la sua disubbidienza per finire alle suore di oggi, inferiori per diritto divino ai preti, la cultura di un modello femminile corrotto e subordinato a quello maschile è passato per le Sacre Scritture ed è approdato al più moderno Catechismo, che per molte generazioni ha costituito un passaggio obbligato. Miti di verginità e purezza come sinonimo di castità (tutta femminile, s’intende) inclusi.
E d’altronde il matrimonio riparatore che annullava gli effetti penali di una violenza sessuale ha cominciato a perdere piede solo dopo il 1965 quando Franca Viola, la prima ragazza italiana a rifiutarlo, divenne il simbolo dell’emancipazione femminile. Ma solo nel 1981 è stato abrogato per legge insieme al delitto d’onore che concedeva attenuanti a qualsiasi uomo (padre, fratello, marito) ammazzasse una donna perché arrecava, attraverso una condotta sessualmente disdicevole, danno alla sua onorabilità. Entrambi erano retaggi di quel Codice Rocco di mussoliniana memoria che relegava le donne all’umile ruolo di oggetti di proprietà.
Da allora sono passati 35 anni. Tanti per una società che lavori istituzionalmente per promuovere la parità tra i sessi, il rispetto per l’altrui libertà, l’affettività come manifestazione paritaria e consenziente; pochi per chi, come l’Italia, è ancora oggi piegata allo spauracchio del “gender” e non riesce a liberarsi da quel vincolo pregiudiziale esercitato da un manipolo di bigotti che vedono nell’educazione affettiva e sessuale delle nuove generazioni l’incarnazione di Satana.
Le donne ammazzate in quanto donne (136 nel 2014, 128 nel 2015, 30 in questi primi cinque mesi del 2016), la gran parte per mano di attuali o ex mariti, compagni, fidanzati o amanti, sono solo la punta dell’iceberg dei quasi sette milioni che nell’arco della loro vita hanno subito violenza fisica o sessuale (dati Istat 2015). Ma questa furia violenta e disumana non risparmia neanche gli uomini che infrangono le implicite regole di possesso esclusivo di una donna da parte del suo partner. È già caduto nel dimenticatoio il caso del diciassettenne Ismaele, sgozzato poco meno di un anno fa per aver mandato qualche sms alla ragazza del suo assassino. Per lui non si è alzata alcuna protesta indignata da parte delle donne, eppure è stato vittima della stessa cultura misogina e maschilista che ha ammazzato Sara.
Mettete i drappi rossi sul balcone, se volete. Dite basta. Scagliatevi contro il mostro di turno perché in un “raptus” ha ucciso la sua ex. Chiedete pene più severe. Ma sappiate che finché continueremo a chiudere i centri antiviolenza (notizia di questi giorni è la chiusura di diversi centri romani che hanno aiutato e ospitato decine di migliaia di donne vittime di abusi) e a eludere il dovere civile di portare l’educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole sarà tutto vano. Perché avremo sempre nuovi mostri pronti a considerare una donna roba di loro proprietà. Arrivando, se non bastano le molestie, a uccidere lei o chiunque osi avvicinarla.
Cecilia M. Calamani – Cronache Laiche