“Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare, così solita e banale come tante…” cantava Francesco Guccini negli anni in cui si cominciavano ad aprire gli occhi sul problema dell’aborto; e una piccola storia ignobile, consueta e comune a tante persone ve la vogliamo raccontare anche noi.
Un’anziana signora di 74 anni che vive da sola, cade in casa poco dopo la mezzanotte di un giorno di questo Marzo 2019 e, per una serie di sfortunati eventi, passa molte ore sul pavimento. Quando riesce ad avvertire i vicini e i familiari è già quasi mezzogiorno, arriva l’ambulanza e gli operatori non trovano nulla di rotto ma di comune accordo con i parenti la portano al pronto soccorso per un controllo. Anche perché la signora è ovviamente disidratata, impaurita e confusa.
L’accompagnatore segue l’ambulanza e arriva quasi contemporaneamente, ma la zelante accettazione del pronto soccorso locale lo ferma in sala d’attesa adducendo prima il motivo che la stanno visitando, poi di imprecisate esigenze ospedaliere per cui lei non può farlo entrare se non viene chiamato dagli infermieri e infine dopo quasi due ore e, solo a seguito della solita minaccia di questo di chiamare i Carabinieri (ricordiamo per inciso che un malato ha sempre il diritto di avere un accompagnatore a suo fianco se non durante il tempo necessario alla visita), riesce a raggiungerla. Così scopre che in oltre due ore, al di là di un controllo approssimativo fatto dagli infermieri all’arrivo dell’ambulanza, nessun medico ha visitato la signora. La quale è stata catalogata come codice verde. Il penultimo nel grado delle urgenze.
L’accompagnatore fa presente che la signora è digiuna da oltre dodici ore e prende vari farmaci psicoattivi peri suoi acciacchi dovuti all’età. Ma nessuno pensa che sia il caso di fornire quei farmaci e neanche di fare una semplice flebo idro-salina per reidratare la paziente. Fortunatamente i distributori automatici funzionano e così l’accompagnatore (l’anziana non riesce ad alzarsi in piedi da sola) può darle qualche bevanda zuccherata.
Ha la tentazione di portarla via, perché ormai è chiaro che la signora non ha le ossa rotte e che deve riposare ma l’infermiere lo fa desistere dicendo che una tac di controllo è sempre opportuna. Dopo sei ore di attesa dall’entrata al p.s. (sono le ore 19.00) uno dei dottori di turno chiama l’anziana, suscitando le ire di qualche paziente presente lì prima di lei. L’infermiere ricorda per placare gli animi che loro erano codici bianchi ed erano stati avvertiti che l’attesa poteva essere lunga. “ Si ma io sono qui dalle otto del mattino!” urla esasperato un signore più o meno coetaneo della nostra protagonista “quanto deve essere lunga quest’attesa?”. Non lo sapremo mai, speriamo che ora, passati quattro giorni sia uscito finalmente.
Il dottore chiede alla signora cos’ha e che cosa è successo, non le misura la pressione, non guarda le pupille, non prova i riflessi delle ginocchia. Dopo due minuti l’ha già inviata a fare le radiografie.
L’accompagnatore, con modi che per quanto cerca di tenere gentili lasciano ormai trapelare una discreta incazzatura, che gli fa notare che se fosse stato rotto qualche osso ormai gli arti sarebbero stati da amputare (diciannove ore dalla caduta) e che l’unico motivo per cui non ha già portato via l’anziana signora è che l’infermiere aveva promesso di fare una tac di controllo alla testa.
“Ma la signora è cosciente, lo vedo che non ha bisogno della tac”.
Dopo un battibecco in cui i modi gentili sono stati accantonati definitivamente, e in seguito al consueto tirare in ballo l’amico avvocato che ha appena vinto una causa per negligenza contro un medico dell’ospedale, la Tac viene segnata controvoglia.
Il “lieto” fine arriva dopo quasi altre due ore con i risultati insieme al foglio di dismissione della paziente. “Ma non la ricontrolla?” chiede l’accompagnatore. L’infermiere dice “Non c’è bisogno sta scritto tutto lì quello che dovete fa’”. Ovvero come da referto medico: ghiaccio almeno due volte al giorno dieci minuti al massimo per volta. “Però, un luminare della medicina!” esce detto insieme a un ghigno ironico all’accompagnatore. L’infermiere lo guarda male e gli dice: “Ma lo vede come siamo messi? Io dovevo uscire due ore fa”.
“Ma io la capisco benissimo” risponde l’accompagnatore “lei invece provi a capire che la signora doveva uscire almeno quattro ore fa”.
È lapalissiano dire che non tutti gli ospedali e i pronti soccorsi d’Italia sono uguali, tuttavia ignorare la questione è impossibile perché di certo, in base a quello che sentiamo sempre più spesso, certamente non siamo di fronte a un caso isolato.
La struttura del Pronto Soccorso è quella con cui le persone sono maggiormente a contatto quando hanno dei problemi di salute; conseguentemente è uno dei punti chiave dove si misura l’efficacia del rapporto Cittadino – Stato e del famoso “contratto” fra i due. Inutile avere eccellenze planetarie se poi il quotidiano va a rotoli.
Se certe situazioni da film pasoliniano sembravano un ricordo del passato, oggi sono tornate di attualità a causa di governi ciechi che hanno usato la sanità come un bancomat per pagare “altro” (e non entriamo nei dettagli per pietà verso il nostro misero Paese). Accorpamenti dei pronti soccorsi senza aumenti di spazi o di personale, blocco delle assunzioni che ha impedito la sostituzione di chi è andato in pensione negli ultimi dieci anni con conseguente ricorsi a cooperative esterne o interinali vari e crollo della qualità dei servizi.
Sacrifici necessari per il nostro paese? Forse sì, stando alle regole europee, ma come diceva Enrico Berlinguer i sacrifici possono essere chiesti dallo Stato alle alle persone comuni quando sono stati aboliti tutti i privilegi. E sul fatto che questi ultimi non siano mai stati toccati speriamo sinceramente che non ci siano obiezioni.
Ma il secondo aspetto da deplorare in questa piccola storia ignobile è il il rapporto disumano fra medico e paziente nella struttura ospedaliera.
Da una parte gli infermieri che sono oberati di lavoro e non hanno più il tempo per svolgere la parte empatica della medicina, ovvero l’assistenza al paziente (pulizia, cambio delle medicazioni, conforto etc.); dall’altra quei medici che la parte empatica della medicina non l’hanno mai imparata, nonostante tutto quello che oggi ormai sappiamo sull’importanza del rapporto fiduciario medico-paziente nella cura di questo (effetti placebo, effetti nocebo, risposte influenzate dal benessere psicologico).
Quando poi ci meravigliamo come sia possibile che nel nostro paese abbiano tanto successo i “santoni” e le “medicine” alternative facciamocele delle domande. E già che ci siamo diamoci anche delle risposte.
Perché sì, il ciarlatano di turno che parla a vanvera di (esempio a caso) energia universale che entra in contatto con la malattia del paziente togliendogliela con la recitazione di due mantra (e qualche centinaio di euro, ovviamente) va biasimato, certo. Ma lui fa quello che i medici non fanno, ovvero: parlare con il paziente, ascoltarlo, confortarlo e (magari ingannandolo) promettergli che starà meglio.
E se la gente preferisce andar da lui piuttosto che essere maltrattata in ospedale un motivo ci sarà.
Alessandro Chiometti