Alla base della dottrina sociale cristiana, che cominciò a chiamarsi così verso la fine dell’Ottocento, c’è il solidarismo interclassista, già professato dai cristiani nei primi secoli, ma depurato dalle aspre invettive contro i ricchi presenti in molti padri della Chiesa.
Oratores, bellatores, laboratores
Per il solidarismo interclassista cristiano l’esistenza di ricchi e poveri è conforme a natura e regolata in base al principio che i “grandi” si occupano dei “piccoli” e questi ultimi si subordinano ai primi. «Il forte si prenda cura del debole», esortava alla fine del I secolo Clemente I, «e il debole si preoccupi del forte; il ricco sostenga il povero, ma il povero ringrazi Dio per aver dato tanto a coloro per mezzo dei quali si soccorre alla sua indigenza». «Al povero», diceva Agostino, «spetta di chiedere e al ricco di donare». E nel 1020 Adalberone, vescovo di Laon, ripropone in questa nuova versione l’apologo di Menenio Agrippa: «La casa di Dio, che è creduta una, è divisa in tre: gli uni pregano, gli altri combattono, altri ancora lavorano.. i servizi resi da una sono la condizione delle opere delle altre due; ciascuna a sua volta si incarica di aiutare l’insieme». E del resto, aveva osservato nel V secolo Teodiceto, vescovo di Cirro, se tutti fossero ricchi «Chi starebbe allora a picconare nelle cave, eppoi chi fornisce pietre da costruzione, chi le ordina e le dispone a dovere, chi costruisce le case, se a ciò non lo spinge la povertà, se non lo obbliga il lavoro?. Il reggitore dell’universo ha destinato, con piena equità e ragione, povertà per gli uni e ricchezza per gli altri».
La questione sociale
Nel secondo Ottocento la Chiesa, di fronte all’avanzata dei socialisti e dei comunisti, ripropose e aggiornò questo interclassismo con l’intento di conciliare le richieste dei lavoratori con le esigenze dei ricchi e la difesa delle loro proprietà. Se Pio IX si limitò a condannare quanti usano i «poverelli», «gli operai e le altre persone di basso stato» per «invadere, manomettere, dilapidare le proprietà», Leone XIII affermò che la Chiesa, pur riconoscendo «disuguaglianza tra gli uomini, naturalmente diversi per forze fisiche ed attitudine d’ingegno» e ritenendo «inviolabile per tutti il diritto di proprietà.che dalla stessa natura deriva», non dimentica «la causa dei poveri. anzi, con materno affetto, se li stringe al seno. Incalza poi i ricchi col gravissimo precetto di dare ai poveri il superfluo, e li spaventa intimando loro il giudizio divino, secondo il quale se non verranno in aiuto dell’indigenza saranno puniti con eterni supplizi» nell’altra vita. Infine favorisce lo sviluppo delle «società artigiane ed operaie» – veri sindacati gialli – «che, poste sotto la tutela della Religione, avvezzino tutti i loro soci a considerarsi contenti della loro sorte, a sopportare la fatica e a condurre sempre una vita quieta e tranquilla». Anche nella prima enciclica sociale, la Rerum novarum (1891), il papa non va oltre questo: benché attento a suggerire provvidenze per i lavoratori, indica come «diritto di natura» la proprietà privata dei mezzi di produzione ribadendo che le disuguaglianze sono giuste, volute da Dio e socialmente utili come la diversità delle membra nel corpo umano, secondo l’indimenticato apologo di Menenio Agrippa. Dolore e fatica, poi, si spiegano secondo il papa come «ree conseguenze del peccato», che peserebbero su alcuni più che su altri non si sa perché.
L’elemosina ultima frontiera
Dopo il crollo del socialismo reale Giovanni Paolo II sentì l’esigenza di non appiattirsi del tutto sulla difesa della proprietà privata capitalista. Ma lo sforzo di tenere insieme la tradizionale difesa della proprietà privata con una rivalutazione della proprietà comune, elogiata da molti padri della Chiesa, sfocia in questo pasticciato compromesso del Catechismo della Chiesa cattolica (1992): «La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto ad essa e del suo esercizio». (§ 2403). Ma come si potrà assicurare una destinazione universale dei beni, se la loro proprietà e il loro uso resta un diritto esclusivo dei privati che li detengono? La soluzione la suggerisce Benedetto XVI nel Messaggio per la Quaresima 2008, spiegandoci che i padroni non sono «proprietari bensì amministratori» dei loro beni, i quali «non vanno considerati come esclusiva proprietà, ma come mezzi attraverso cui il Signore chiama ciascuno di noi a farsi tramite della sua provvidenza verso il prossimo». In altre parole spetta ai padroni, in quanto «amministratori», di decidere se e come i loro beni debbano avere una «destinazione universale» e essere usati, come raccomanda Benedetto e già dicevano Clemente I e Leone XIII, per «soccorrere i poveri» e «dare il superfluo». L’elemosina resta per la Chiesa, anche nel terzo millennio, il top della dottrina sociale cristiana.
Walter Peruzzi – Cronache Laiche