Testo di "ElfoBruno" pubblicato sul suo blog:
Quando andavo a scuola ero una checca. Ok, qualcuno di voi dirà che lo sono anche adesso. In tal caso rispondo come fece Woody Allen quando lo apostrofarono con l'epiteto di comunista: lo prendo come un complimento.
Ma sta di fatto che la repressione del mio lato sessuale era così forte e crudele, che la mia gayetas – dispettosa già da allora – scappava ad ogni forma di controllo e si concretizzava con quella postura definita a polso rotto o con una voce Amanda Lear style che, nel complesso di tutte le altre manifestazioni del mio io, mandava in visibilio i miei compagnetti di classe.
L'elenco degli insulti che ho ricevuto dalle elementari al liceo è piuttosto monotono e ripetitivo.
Da Dario femmina – elementari, a causa della mia scarsa propensione a correre dietro un pallone sudando e gridando come un cretino – ad aricchione, alle medie.
Da puppo – epiteto siciliano che designa le persone omosessuali del luogo, e che va tradotto con "polpo" – al più nazional-popolare frocio.
Mancavano all'appello termini quali culattone e finocchio. Il primo perché Calderoli non faceva ancora parte dell'arco costituzionale, il secondo perché troppo esotico per menti sofisticate come i miei compagnetti di classe.
Ogni tanto, poi, tali esternazioni venivano accompagnate con qualche sberla, che fatti non fummo per viver come bruti ma evidentemente quel passo della "Divina Commedia" a Siracusa non devono averlo letto in molti.
I professori facevano finta di non sentire, ma poi erano cazzi se non sapevi a memoria il paradigma di fio o gli essenziali procedimenti matematici che stavano alla base del teorema di De l'Hôpital. Per non parlare delle formule di prostaferesi o dell'assonometria cavaliera.
Tutto questo aveva ricadute sociali non indifferenti. Siccome ero bravino – e anche molto più furbo di quanto si immaginasse, ma per tutti ero il frocetto rincoglionito – durante i compiti o le interrogazioni ero al centro di richieste di aiuto tra le più svariate. Poi, a lezione finita, ritornavo il paria prescelto, tra sonore sghignazzate e scheccamenti auto-indotti che avevano l'unico fine di umiliarmi.
Ricordo poi un mio compagno di classe – col senno di poi posso capire il perché della sual cattiveria, direttamente connessa alla sua avvenenza e non a caso di lui si diceva che era una strana creatura metà uomo e metà se stesso – un mio compagno, dicevo, che mi guardava da lontano, durante la ricreazione. Mi avvicinai e mi disse: "vattene, sei frocio e non voglio che la gente mi veda a parlare con te che poi pensano che lo sono anch'io".
(Dopo qualche anno ho saputo che andava a far pratica di sesso orale dalle trans che battono nei pressi del Teatro greco.)
Ebbene, in tutto quel tempo mi sono odiato.
Avevo una foto di me, di quando avevo due anni, e la strappai.
Pregavo Dio di farmi guarire e sopportavo in silenzio tutto quel letamaio di odio e di violenza perché mi ero convinto che dentro di me ero sporco.
Ho pensato al suicidio, per più di una volta, e se non l'ho mai fatto è stato solo perché avrei dato un grandissimo dolore alla mia famiglia. E loro non si meritavano di avere un dolore simile a causa mia.
Le cose poi cambiarono un po' da sole, e altrove ho scritto cosa è successo.
Forse c'era qualcosa, dentro di me, che mi spingeva a pensare che anch'io avevo le mie ragioni.
E ho indagato. E mi sono innamorato, sbagliando (ma questa è un'altra storia).
E ho smesso di scheccare. In modo involontario, ça va sans dire.
Adesso quando qualcuno si permette, ma in modo allusivo, che dalla tracotanza si è passati alla dissimulazione non onesta, lo guardo dritto negli occhi. E quel qualcuno sparisce.
Il mio lato luminoso della forza…
Oddio, ricordo sempre il giorno in cui ho strappato quella foto e dovevate vedermi, ero davvero bello, puro. Un piccolo angelo. Forse da quel giorno ho strappato una parte di me, che cerco di ritrovare altrove. Un po' come quella storia del mito platonico, non so se rendo l'idea.
Ma se vi scrivo tutto questo è solo perché Marco è morto. Suicida.
La sua lettera scarlatta era l'accusa di essere gay, "come Jonathan del Grande Fratello".
Cioè, roba da dir loro: ragazzi, non solo siete dei colossali pezzi di merda ma i vostri riferimenti sub-culturali fanno anche abbastanza schifo.
Marco è morto e io non so se era omosessuale o meno. Ma una cosa mi è molto chiara.
Di omofobia si può morire. Malattia strana, certo, colpisce gli etero e fa fuori i gay (mi ispiro liberamente a non so chi, ma dico da subito che questa citazione non è mia ma calza a pennello).
Marco non ha avuto la fortuna di strappare una sua foto, per poi pentirsene amaramente e re-innamorarsi della vita. Marco l'hanno strappato via dal suo futuro, con un insulto tanto stupido e inconsistente quanto drammatico e tragico.
Io, forse, un giorno ritroverò i frammenti di quell'immagine buttata chissà dove.
Ma i frammenti di tutto l'amore che Marco poteva trovare – per se stesso, per i suoi cari, per quelli che sarebbero stati i suoi amici e per qualcuno di speciale, fosse stato questo qualcuno uomo o donna – chi li ha fatti in mille pezzi?
E soprattutto: per quanta giustizia verrà mai fatta, ed io ci credo poco, chi cercherà la sua immagine lacerata per restituirle vita, gioia e speranza? Il fatto che la risposta sia nessuno, non vi fa incazzare almeno un po'?
A me, moltissimo.
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