* Carlo Flamigni sul manifesto del 11/9/2007
Le verità di papa Benedetto XVI stanno diventando sempre più numerose, e tenendo conto dello spazio che trovano sui nostri giornali e sulle televisioni sarà sempre più difficile contestarle tutte: qualcuna finirà per sfuggirci e a quel punto sarà tutto finito, lui andrà trionfalmente a dama e a noi poveri laici resterà solo la consolazione del suo inevitabile, odioso perdono. Per il momento, però, la parola d'ordine è ancora «resistere, resistere, resistere…».
Tra le molte verità delle quali ci ha gratificato durante il suo viaggio in Austria, ne colgo due che sono un po' più delle altre alla mia portata: la prima afferma che l'uomo per il quale la verità non esiste non può distinguere tra il bene e il male e che il cattolicesimo si oppone a questa rassegnazione; la seconda verità riguarda i rischi che derivano da una scienza che non riconosce la morale e non vuole fare riferimento a dio, rischi che possono giungere fino alla distruzione dell'uomo e del mondo. L'uomo, dunque, ha bisogno della verità. Di quale, potete immaginarlo.
L'attacco di B 16
Direi che questo è un robusto attacco portato ai principi della laicità, almeno a quelli sostenuti da Abbagnano, Calogero, Jemolo, Lecaldano, Mori, Giorello. La cultura laica è nata dalla confluenza di molte forme di pensiero che hanno ritenuto necessario affrancare la filosofia e la morale dalla religione positiva: sono le stesse idee che hanno percepito come una forte istanza civile il diritto alla libertà di coscienza e che hanno consentito il progressivo distacco del pensiero politico dalle richieste della religione, costruendo quella nuova mentalità alla quale dobbiamo la prevalenza della ragione sul mistero. Così la scelta definitiva del pensiero laico è stata quella di rifiutare la verità rivelata, il dogma assoluto, sostenendo la priorità della libera ricerca delle verità relative. Questo fermo atteggiamento di rifiuto delle verità rivelate lo si ritrova in tutte le definizioni credibili di laicità, certamente non nelle incredibili manipolazioni con le quali il mondo cattolico ha cercato di esorcizzare una parola per lui straordinariamente odiosa. Prendo ad esempio Calogero: laicità è un metodo di convivenza di tutte le ideologie e di le filosofie possibili, che debbono rispettare, come regola primaria, il principio che nessuno può pretendere di possedere la verità.
Dunque, la laicità è l'atteggiamento di chi non crede nella metafisica e nel trascendente e di chi ritiene che il mondo basta a se stesso e non ha alcun bisogno di essere fondato metafisicamente. Distinguere una razionalità povera e umile perché incapace di librarsi nell'empireo della metafisica e una razionalità nobile e virtuosa perché aperta alla spiritualità è una acrobazia dialettica. In realtà il mondo ha bisogno di un'etica razionale che sia in grado di assicurare a tutti la libertà e di adeguarsi continuamente alle mutevoli circostanze storiche.
I dieci punti del papa sulla laicità, invece di dimostrare l'esistenza di una verità unica e assoluta, il cui bagliore cancella tutte le altre pretese verità, invece di dimostrarci la verità del logos, cerca di convincerci che la fede è razionale perché la razionalità ha bisogno della fede, dimenticando che gli assiomi possono essere accettati quando si discute di geometria euclidea, non quando si deve dimostrare l'esistenza di dio. Sarà bene ricordare a tutti che la nostra società si è data delle regole: se qualcuno vuole dimostrare agli altri la fondatezza di una sua teoria deve farlo rispettando queste regole, se non lo fa gli altri hanno il diritto di dirgli che quanto afferma non corrisponde a verità.
Uno dei punti dolenti del papa a proposito della laicità riguarda il fatto che essa sembra considerare la religione come irrazionale e indegna di entrare nel dibattito pubblico. Questo argomento merita qualche ulteriore precisazione. Certamente la laicità considera la fede come un fatto privato, una esperienza legittima, che non può però pretendere di condizionare la vita degli uomini , come se il criterio ordinatore della società potesse dipendere dalla metafisica e dal soprannaturale: non si esorcizzano miracoli e fantasmi senza una forte razionalità e una altrettanto forte fiducia nel razionale e chi non possiede queste doti non può immaginare di poter presiedere alla costruzione delle regole. Altra cosa è la morale delle religioni, perché trae la sua essenza dal dialogo tra gli uomini e perciò certamente merita grande attenzione.
Temo che gran parte delle cose che ci vengono ammannite sotto l'egida della verità altro non siano che propaganda religiosa, che trae gran parte della sua forza dall'atteggiamento remissivo della cultura cosiddetta indipendente. Un grande maestro della filosofia laica, Carlo Augusto Viano, ha ripetutamente affermato che da questa propaganda il cittadino ha il diritto di essere difeso. Ha scritto Viano: di fronte alla pretesa di imporre a tutti, con mezzi spesso discutibili, comportamenti giustificati da considerazioni di ordine religioso e per giunta spacciati per argomentazioni razionali, la cultura indipendente dovrebbe avere il coraggio di dire che queste convinzioni private proposte come base per decisioni pubbliche sono imposture.
Non è cosa di poco conto: le imposture possono essere propagandate con successo se non sono state scoperte, possono essere propagandate e basta se sono state riconosciute come tali. Per difendere i cittadini dalla propaganda religiosa bisogna anzitutto riconooscere che quella religiosa è propaganda, che significa ammettere di sapere che si basa su presupposti gratuiti e surrettizi, ispirati a un sapere fittizio e attinti da libri pieni di falsi.
Dunque, un mondo che basta a se stesso e non ha bisogno della metafisica per orientarsi, ha il diritto di scegliere da solo le regole che debbono essere utili per stabilire compiti, confini e limiti della ricerca scientifica: non è cosa nuova e, soprattutto, non è cosa difficile. In fondo la ricerca scientifica non è che un grande investimento sociale, forse il maggiore di tutti gli investimenti nei quali la società si impegna, e ha lo scopo di assicurarle i maggiori vantaggi possibili per la sua qualità di vita e soprattutto per quella dei suoi figli più sfortunati. In termini molto semplici, il compito della scienza è quello di conoscere per mettere ordine nel disordine naturale nel quale viviamo. Non vi è dubbio sul fatto che i ricercatori e gli scienziati debbono rispettare una serie di regole (disinteresse, trasparenza, sincerità, onestà intellettuale, scetticismo organizzato) e che chi non riesce ad accettare questo obbligo non fa automaticamente più parte della comunità scientifica.
I confini delle scienza
E' logico a questo punto chiedersi se debbono esistere regole e limiti condivisi e chi li deve definire. Risponderei sì alla prima domanda, sulla base di due principi generalmente condivisi: non tutto quello che la scienza ci consente di fare è moralmente accettabile; non tutto quello che la natura cerca di ammannirci è accettabile da parte della nostra umanità. Mi sembra logico, a questo punto, affidare la definizione di confini e limiti alla morale di senso comune, una morale collettiva che si forma a seguito di diverse influenze e che è certamente sensibile alla intuizione delle conoscenze possibili e dei vantaggi che ne può ricavare, una volta accertata l'assenza di rischi significativi.
Entra in campo, con prepotenza, la necessità che questa morale sia messa nelle condizioni di potere decidere da una attenta e scrupolosa promozione della cultura nei campi nei quali le scelte debbono essere operate, quello che gli anglosassoni definiscono il public understanding of science. Gli inglesi ne hanno dato un perfetto esempio con il «sondaggio deliberativo» che hanno utilizzato a proposito della decisione di consentire la produzione di embrioni ibridi. La tecnica, ormai accettata dalla maggior parte dei paesi civili, è relativamente semplice. Si esegue una normale indagine conoscitiva su un certo tema, e a essa si fa seguire una campagna di informazione capillare, coinvolgendo tutti gli esperti, ricercatori e scienziati. Al termine si ripetono le stesse domande della prima indagine per verificare il cambiamento delle opinioni, con l'obiettivo di scoprire quanto la percezione generale della scienza influisce sull'opinione che i cittadini hanno su un particolare argomento. In questo modo dovrebbero essere accompagnate nel loro percorso all'interno del contesto sociale tutte le innovazioni tecnico-scientifiche, sempre tenendo conto del fatto che se la scienza nasce in vitro, negli ambienti asettici dei laboratori, deve poi essere trasferita in vivo, cioè nella società, dove è destinata a scontrarsi con pregiudizi e timori.
Tutto sommato, dai messaggi che ci stanno arrivando da molti paesi, dalle loro esperienze e dai successi che vi ha ottenuto il processo di accettazione delle nuove acquisizioni scientifiche, credo che si possa concludere che si può aver fiducia nella scienza e si può contare sulla nostra capacità collettiva di dettarne le regole. Sinceramente non vedo, con buona pace del pontefice, alcun bisogno di dio.