Favor religionis
Un elemento comune alle dichiarazioni sovranazionali sottoscritte dal nostro paese (Carte) in materia di diritti umani, è di prevedere una serie di norme che si riferiscono al fenomeno religioso sia in termini individuali che collettivi.
Quando ci riferiamo alle Carte intendiamo richiamare la “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo” del Consiglio d’Europa del 4 novembre 1950, alla “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, firmata a Nizza nel 2000 e riconfermata a Lisbona nel 2007 e la “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” adottata dall’Onu il 10 dicembre 1948.
Tutte queste Carte sanciscono solennemente, tra l’altro, la tutela dei diritti religiosi e lo fanno con forme e contenuti sostanzialmente analoghi tra di loro, ma, tutte, con marcate differenze almeno formali rispetto alla nostra Costituzione.
Nelle Carte il riferimento alla religione è contenuto in due soli articoli del testo: il primo, che sancisce il “Principio di eguaglianza” e vieta ogni discriminazione, anche religiosa (art. 2 della Dichiarazione Onu e art. 14 della Convenzione del Consiglio d’Europa), e il secondo che afferma la “Libertà di pensiero, coscienza e religione” (art. 10 Unione Europea, art. 9 della Convenzione del Consiglio d’Europa e art. 18 della Dichiarazione Onu). Ambedue riconoscono diritti di tipo individuale e tutelano l’esercizio della religione da parte delle persone singolarmente prese.
L’esercizio collettivo del culto è tutelato implicitamente dalle norme che si riferiscono alla libertà di espressione (art. 19 della Dichiarazione Onu e art. 10 della Convenzione del Consiglio d’Europa), senza però che sia citata la religione come fenomeno associativo né che si faccia riferimento a Chiese od altre organizzazioni di tipo religioso.
Si può concludere che l’obiettivo delle Carte è l’individuo, di cui sanciscono solennemente la tutela, ponendolo al centro dell’azione dei governi per la sviluppo del suo benessere. I fenomeni associativi, compresi quelli religiosi, trovano protezione solo perché espressione del diritto individuale di associazione e riunione.
Diverso è il discorso per la nostra Costituzione che dovrebbe contenere, nella parte generale dei Principi fondamentali, previsioni dello stesso tenore. Ma non è così perché accanto al “Principio di uguaglianza” dell’art. 3 comune anche alle Carte si trovano numerosi altri articoli che si occupano della religione e delle confessioni religiose.
L’art. 3 che contiene il “Principio di eguaglianza” (anche religiosa) non è sembrato sufficiente al nostro legislatore per garantire la libertà religiosa e ha ritenuto necessario introdurre anche un art. 7 che afferma l’indipendenza della Chiesa Cattolica e recepisce i Patti Lateranensi, un art. 8 che afferma che tutte le religioni sono libere e con diritto di organizzarsi e stabilire i rapporti con lo Stato Italiano mediante specifiche intese, un art. 19 che sancisce il diritto del cittadino di professare liberamente la propria religione, un art. 20 che vieta discriminazioni o limitazioni per le Chiese e le altre associazioni religiose e infine un art. 21 che ribadisce il diritto per i cittadini di manifestare liberamente il proprio pensiero, ivi compreso quello religioso. In complesso sono presenti sei articoli di cui tre a tutela delle Chiese e delle associazioni religiose e altri tre a salvaguardia dei diritti degli individui di professare la propria religione.
La dovizia di norme avente a oggetto il fenomeno religioso e l’esercizio del culto individuale e collettivo ha indotto i giuristi che, sin dal suo nascere, si interessarono della Costituzione a interrogarsi su quale fosse la volontà dei Padri costituenti, per accertare l’intento di assegnare alla religione uno “status” privilegiato rispetto alle altre espressioni del pensiero umano, attuando un vero e proprio “favor religionis” nella stesura della nostra Costituzione. Alcuni, avuto riguardo ai lavori e alle dichiarazioni rese nella Costituente, lo negano, altri, e non solo in campo cattolico, lo sostengono, appoggiandosi alla lettera del testo costituzionale, la cui ampiezza, tutta orientata in senso garantista, degli artt. 7, 8, 19 e 20 sembra proprio indicare uno spiccato atteggiamento di benevolenza giuridica nei confronti del Cattolicesimo e del fenomeno religioso in generale.
Tale situazione normativa, fortemente sbilanciata in senso confessionale, appare peraltro coerente con il diverso peso delle forze in seno all’Assemblea Costituente. La cronaca dei lavori fa emergere l’attenta e puntigliosa attività delle forze politiche più vicine alla Chiesa cattolica, giunte ben più preparate all’appuntamento della Costituente con il preciso e chiaro obiettivo di lasciar fuori dalla Costituzione ogni concezione che considerasse la religione un fatto individuale. Costoro lavorarono e discussero in modo attento e puntiglioso per costruire una Costituzione che delineasse uno Stato in cui i Cattolici potessero agire per conformare la vita pubblica e privata agli insegnamenti della Chiesa, in una sorta di “Stato cristiano”. La stessa Chiesa cattolica si batté energicamente per il recepimento costituzionale del Concordato, cosa che puntualmente avvenne con l’art. 7. Altre componenti della Costituente, seppur su posizioni non confessionali, guardarono però con benevolenza alla Chiesa cattolica e al sentimento religioso e tollerarono che fossero inserite esplicitamente e doviziosamente norme a tutela del fenomeno religioso. Da ultime, le forze più autenticamente laiche, orientate nella direzione di un confinamento del pensiero religioso nell’ambito privato dell’individuo, non riuscirono a contenere l’azione confessionale né portarono avanti l’esplicita tutela dei non credenti, con il risultato che la nostra Costituzione contiene norme discutibili, come quella dell’art. 7 che recepisce i Patti Lateranensi, o ridondanti, come l’art. 20 che ripropone il divieto di porre gravami e limiti alle organizzazioni religiose, mentre non presenta alcuna norma che affermi e protegga la libertà di pensiero e di coscienza, nella quale è naturalmente ricompresa la libertà di pensiero non religioso. La mancanza di disciplina legislativa sul pensiero non religioso ha prodotto uno sbilanciamento tra i due fenomeni, quello religioso e quello non religioso, autorizzando il legislatore, a una produzione nel tempo di norme di legge e regolamentari a favore dei credenti e delle Chiese, mentre il fenomeno ateistico è andato incontro a una piena indifferenza legislativa. Parallelamente, dal punto di vista sociale, all’ateismo è stata riservata una mera tolleranza di fatto, trasformatasi in ostilità in tutti i campi e ambiti in cui era riconosciuta e valorizzata la funzione sociale della religione.
Se la Costituzione ha voluto attribuire una valutazione di maggior pregio alla religione rispetto alle altre espressioni del pensiero umano, ha reso anche legittimi tutti i privilegi che il legislatore ha poi attribuito ai fenomeni sociali di tipo religioso, con la conseguenza che tutto il corpo delle leggi formatosi nel tempo in senso privilegiario ha tracciato un quadro istituzionale che non è azzardato definire semi- confessionale.
Negli ultimi decenni è venuta peraltro emergendo una prospettazione in senso laico del nostro Paese attraverso un’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali, che in parte ha stemperato l’intonazione confessionale del nostro paese, riducendo il divario di civiltà giuridica che nella specifica materia lo separa dagli altri paesi occidentali.
Dagoberto Frattaroli