La religione come fatto privato La speranza di veder attuata un giorno in Italia una società laica, in cui sia venuta meno la supremazia della religione su ogni altro fenomeno sociale e culturale, poggia validamente sul “principio di laicità”, dichiarato dalla Corte Costituzione come principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano. La Corte (1) l’ha definito nei seguenti termini: “Tutti i cittadini hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in forma individuale o associata e di esercitarne il culto anche pubblicamente. Lo Stato garantisce la difesa della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale.” Dall’enunciato discendono alcuni corollari: esiste un diritto individuale a esercitare la religione anche in forma collettiva; lo Stato rimane estraneo al fenomeno religioso; lo Stato ha il dovere di garantire le condizioni generali per l’esercizio del culto da parte di tutti. Il principio di laicità trova la sua ragion d’essere nella necessità prioritaria di assicurare a tutti i cittadini i fondamentali diritti di uguaglianza e libertà sanciti negli artt. 2 e 3 della Costituzione. La condizione di uguaglianza in materia di religione si realizza quando lo Stato non introduce leggi che favoriscono o discriminano una o più religioni rispetto ad altre forme di pensiero; la tutela del diritto di libertà è assicurata in due modi: garantendo che l’esercizio del culto non sia turbato o contenuto illegittimamente, e astenendosi dall’intervenire in qualsiasi modo nell’esercizio della religione e del culto. Ma perché lo Stato dovrebbe rimanere estraneo rispetto al fenomeno religioso? La risposta risiede nel fatto che lo Stato moderno non ha più interesse a proteggere attivamente il fenomeno religioso, un tempo ritenuto legittimo e necessario per assicurarsi l’appoggio delle Chiese per scopi politici o per il controllo sociale. Inoltre, ed è questo l’aspetto più importante, si va sempre più affermando la convinzione che il pensiero religioso sia mera espressione del pensiero individuale, nel cui ambito strettamente privato e personale deve rimanere senza assumere dimensioni diverse. La tesi che rivendica la natura privata del fatto religioso e la conseguente estraneità dello Stato rispetto a esso è stata già proposta nello stato liberale e, anche se è rimasta nel corso del novecento in disparte di fronte al dilagare prepotente della dimensione pubblica del Cattolicesimo, non ha perso per questo la sua attualità e la sua forza. Avere una fede e un credo religioso fa parte delle convinzioni personali di ognuno ed è uno degli innumerevoli modi in cui si presenta il pensiero individuale. E’ di per sé evidente che il pensiero fa parte della sfera privata, intoccabile e inviolabile, e non può essere oggetto d’interventi, limitazioni o condizionamenti da parte di nessuno, nemmeno dallo Stato. La generale libertà di pensiero è protetta dalla Costituzione e non importa che essa sia di tipo religioso o meno, essendo assicurata in un piano di parità a tutti i cittadini, cui è riconosciuto il diritto di esprimere le loro convinzioni anche in pubblico senza temere censure. Rientra tra i doveri di uno Stato democratico assicurare le condizioni politiche e sociali che permettono agli individui di poterlo fare. Non avendo lo Stato nessun interesse a che i cittadini professino una fede religiosa, il suo compito si ferma qui, non può e non deve spingersi oltre. Non può annoverare tra i suoi scopi la realizzazione di un “Regno di Dio”, né legarsi a una religione, né farsi strumento temporale, né favorirne o ostacolarne qualcuna, né accogliere organi o esponenti del clero nelle proprie istituzioni. Qualunque commistione fosse realizzata, anche la più blanda, violerebbe proprio il principio di eguaglianza che lo Stato deve assicurare. Se la religiosità individuale è un fatto privato, resta tale anche quando gruppi di fedeli si organizzano insieme per l’esercizio del proprio culto. Le organizzazioni religiose, le Chiese, devono essere considerate anch’esse fenomeni di natura privatistica, ancorché in forma collettiva, ed inquadrate nell’ambito del diritto comune come espressione dell’associazionismo. Per quanto grandi e diffuse, le Chiese non possono trasformarsi in istituzioni pubbliche o avere commistioni con l’ordinamento dello Stato, poiché la loro natura è di associazioni volontarie di cittadini uniti da una comune convinzione. Né tantomeno la loro importanza può giustificare la concessione di vantaggi in qualsiasi forma, perché ciò significherebbe discriminare i cittadini che di tali associazioni non fanno parte. In questo contesto laico e privatistico le sole agevolazioni di cui possono godere sono le stesse di cui si avvantaggia oggi in Italia l’associazionismo no-profit, sempre che ne rispettino le norme quadro e le regole statutarie in materia di assenza di lucro, rappresentatività, democraticità della struttura ed elettività delle cariche. Tornando al sogno iniziale di un’Italia laica, è evidente che nonostante il “principio di laicità” sia stato enunciato sin dal 1989, esso è rimasto nella società italiana ampiamente inattuato. La sua realizzazione passa attraverso l’espansione di un comune sentimento laico che imponga un cambiamento nell’attuale costume istituzionale e politico, oggi ampiamente influenzato dalle gerarchie ecclesiastiche e, soprattutto, spinga a un’ampia revisione dell’intero sistema legislativo con l’obiettivo di una completa “deregulation” del fenomeno religioso.
Dagoberto Frattaroli
(1) Sentenza Corte Costituzionale n. 203 del 1989, in materia di ora di religione.