E’ di qualche tempo fa la notizia concernente la donna di Torino che, denunciata per aver circolato in strada coperta da un velo integrale che ne impediva il riconoscimento ai sensi delle leggi di pubblica sicurezza, ha trovato un giudice che ha archiviato la denuncia riconoscendo alla donna un giustificato motivo, consistente nel fatto che con quell’abito si manifestava il proprio credo religioso, diritto questo costituzionalmente tutelato.
Si è trattato dell’ennesimo riconoscimento di una deroga di carattere religioso a una legge dello Stato, un’ennesima eccezione che si aggiunge alle molte presenti nel nostro ordinamento giuridico, in grado nel loro complesso di attuare il riconoscimento di uno status privilegiato alla religione – non solo cattolica – e alle sue manifestazioni esteriori, cosa in contrasto con il principio di laicità delle nostre istituzioni repubblicane.
Un fatto più recente, apparentemente diverso, si ricollega al precedente perché anche qui è in discussione il diritto a manifestare con segni esteriori il proprio credo religioso e la lesione del principio di laicità.
Mi riferisco alla notizia secondo la quale alla Tv di Stato egiziana è apparsa per la prima volta una giornalista con un velo che le copriva il capo. La Tv egiziana, sin dalla sua nascita nel 1960, ha tenuto lontano dal video giornaliste velate, facendo apparire solo donne vestite all’occidentale, in linea peraltro con l’intonazione laica dello stesso Stato egiziano.
Per quanto riguarda le reazioni, ci si sarebbe aspettato che la novità fosse unanimemente criticata da tutte le forze politiche d’ispirazione laica, da tutti i progressisti e da chi teme un’islamizzazione dei media e della società in generale. Ma non è quel che è accaduto. Accanto a chi ha temuto per la laicità delle pubbliche istituzioni, c’è stato chi ha visto nell’apparizione di una giornalista con il velo soltanto la vittoria di una lunga battaglia condotta contro la discriminazione verso le donne velate che a loro dire sarebbero state sinora limitate nelle loro attività professionali nell’ambito della Tv pubblica.
La notizia giunta dall’estero ci fornisce lo spunto per alcune considerazioni valide anche per il nostro paese. E’ indubbiamente giusto riconoscere a ogni individuo il diritto di manifestare il proprio credo religioso a parole e anche mediante l’esposizione sul proprio corpo di simboli e di abbigliamenti caratteristici della propria religione. Non si può però nemmeno sottacere che quando questa esposizione di simboli avviene nell’ambito di un’attività professionale con modalità che si impongono a milioni di persone, come in televisione, oppure avviene ad opera di persone a cui il ruolo professionale conferisce caratteristiche di particolare autorevolezza ed importanza non si è più in presenza di una semplice testimonianza di appartenenza religiosa ma si tratta invece di comportamenti che in qualche modo promuovono e diffondono un credo religioso. Chi ha un’immagine pubblica ed è punto di riferimento per milioni di persone all’interno d’istituzioni pubbliche laiche dovrebbe tenere comportamenti i più neutri possibile rispetto alle proprie opinioni e alla propria fede per evitare di influenzare chi tiene in conto le loro opinioni.
La stessa obiezione può facilmente applicarsi ai casi in cui i simboli religiosi non sono indossati da persone ma sono chiaramente esposti e visibili in luoghi istituzionali. Anche qui si tratta d’ingiustificate forme di propaganda religiosa che si nascondono dietro la libertà di espressione e d’opinione (oppure dietro la tradizione).
Chi vede nella vicenda egiziana semplicemente una vittoria sindacale e chi sostiene l’esposizione di simboli religiosi in luoghi istituzionali in nome della libertà di religione o, peggio, vede la concreta attuazione di una società multiculturale, copre con una foglia di fico la ben più grave lesione apportata alla laicità di un’istituzione pubblica. Se si ritiene che la laicità sia un valore di progresso e modernità allora deve essere difesa non attraverso la licenza concessa a tutti di esporre i propri simboli negli spazi istituzionali o di fare propaganda al proprio credo utilizzando pubbliche ribalte ma rendendo invece questi stessi spazi neutri e impermeabili.
Solo così la Tv e con essa le aule di giustizia, le aule scolastiche, le corsie di ospedale e le altre innumerevoli sedi dove si svolgono le funzioni di uno Stato laico possono veramente dirsi di tutti i cittadini e non territorio di conquista su cui piantare bandiere ideologiche, religiose o di altro tipo.
Dagoberto Frattaroli