Le parole davvero importanti non hanno mai un senso univoco, non possono averlo, perché il significato di una parola è dato dal concetto che rappresenta e quindi porta dentro di sé tutta la storia dei contrasti – ideologici, politici, filosofici, etici – che danno sostanza al concetto medesimo.
Se a tale ambiguità inevitabile si somma la polisemia di molte parole, sicché spesso una sola rappresenta più concetti, si capirà perché molte discussioni non riescono mai a raggiungere la sostanza dei problemi, arenandosi a questioni nominalistiche.
Ci pare che le parole del titolo diano un buon esempio di questa situazione.
Quante volte sentiamo contrapporre la “sana laicità” al deteriore “laicismo”? E quante tacciare di mala fede coloro che si dichiarano “laici ma non laicisti”?
Questione puramente nominalistica, direte voi e in effetti spesso è così. Per capire le effettive coordinate assiologiche di una persona, senza perdersi in anguste disquisizioni terminologiche, è sufficiente sottoporsi vicendevolmente a un test su alcune questioni dirimenti, molto pratiche: finanziamento delle confessioni religiose, simboli religiosi nei luoghi istituzionali, educazione confessionale nelle scuole, autodeterminazione nelle scelte esistenziali.
Fatto questo test, per me si chiarisce subito chi è laico e chi non lo è, e se volete chiamarmi “laicista”, con parola chiaramente dispregiativa, fate pure, la sostanza non cambia.
Sennonché, l’intervento del terzo termine spariglia le cose e scombina i ranghi già serrati delle opposte squadre, opponendo finanche illustri laici(sti) a umili anticlericali.
Lo stimato prof. Odifreddi, ad esempio, in un suo intervento su Repubblica del 30 dicembre 2007, ha configurato la politica laica quale compromesso fra clericalismo e anticlericalismo, consistendo nello “agire come se la religione e la Chiesa non ci fossero, senza naturalmente far nulla affinché non ci siano”.
È evidente che secondo tale approccio l’anticlericalismo sarebbe un atteggiamento deteriore – e comunque non laico – in quanto consisterebbe nello “agire per far sì che la religione e la Chiesa non ci siano “.
La laicità sarebbe in sostanza indifferenza pubblica verso il fenomeno religioso, contrapposta all’anticlericalismo, decisa e attiva ostilità verso Chiesa e religione.
Non sono d’accordo con il professore e non si tratta di questione meramente nominalistica.
La sua nozione di laicità si limita a offrire una soluzione al solo problema del rapporto fra Stato e Chiesa, mentre per chi scrive la laicità è la quintessenza della dottrina della libertà e quindi dello Stato moderno, che deve alimentare la propria vita istituzionale della libertà cosciente dei cittadini.
Uno Stato è laico se pone a proprio fondamento la libera coscienza dei cittadini.
Come può allora uno Stato laico sostenere istituzioni che limitino o coartino tale libertà? Non dovrebbe essergli francamente ostile?
Come può concordare con istituzioni che fondino il proprio potere proprio sulla pretesa di controllare la coscienza dei propri membri?
Va sottoscritto quanto diceva Romolo Murri: libertà della Chiesa significò spesso in Italia servitù delle coscienze, che la Chiesa medesima trattava come cose sue […]. Uno Stato di libertà non può riconoscere questa libertà, che è oppressione.
Lo Stato laico è quindi necessariamente anticlericale, ma non antireligioso: indebolire il potere delle gerarchie vaticane (il clero) non può che alimentare il movimento di vita spirituale del mondo cattolico, che vive nelle coscienze dei fedeli (la religiosità).
In conclusione, come laici non possiamo non dirci (ed essere) anticlericali, perché non c’è libertà dove un’autorità goda di privilegi economici, politici ed istituzionali che le attribuiscano di fatto gli strumenti per condizionare le coscienze dei cittadini.
Massimiliano Bardani