Dopo ogni attentato di matrice islamista si moltiplicano, da un lato, le richieste alla comunità islamica di dissociazione e, dall’altro, le reazioni di molti musulmani che, stanchi, rimandano al mittente questa richiesta, non sentendosi in dovere di dissociarsi più di quanto non debba fare qualunque altro cittadino. Un “balletto” di richieste e reazioni che sta diventando quasi stucchevole. E poi: che cosa si chiede esattamente ai musulmani? Di dissociarsi da cosa? Dalla violenza terrorista? Se è tutto qui, mi pare francamente una richiesta un po’ scontata, alla quale sono certa che aderisca senza remore la stragrande maggioranza dei musulmani. Ma è anche una richiesta insufficiente.
Dopo l’agghiacciante uccisione di padre Hamel le comunità islamiche di Francia e di altri paesi europei, Italia inclusa, hanno fatto un passo in più: hanno invitato i loro fedeli a recarsi domenica a messa per testimoniare con la loro presenza la loro solidarietà e fratellanza. Un gesto di grande forza e impatto simbolico, e di questi tempi i simboli hanno una potenza straordinaria. Un gesto certamente apprezzabile dunque. Eppure.
Se c’è una cosa in cui concordo con papa Francesco è che questa non è una guerra di religione. Con l’uccisione di padre Hamel è la prima volta, in Europa, che viene esplicitamente colpito un bersaglio cattolico. Da Charlie Hebdo al Bataclan, dalla Promenade di Nizza all’aeroporto di Bruxelles, finora erano stati colpiti simboli delle società occidentali laiche, senza nessuna particolare connotazione religiosa, se non addirittura simboli della blasfemia e della miscredenza. Ed è a questa questa società laica che bisognerebbe esprimere – non a parole ma con i fatti – la propria solidarietà. È questa società laica che ha bisogno di essere difesa, sostenuta, rafforzata. Con l’aiuto di tutti, credenti e non. Perché è la nostra casa comune.
E allora, ben venga la partecipazione alla messa di domenica scorsa, ma quello che io, da cittadina laica, chiedo con forza a tutti i miei concittadini – qualunque sia la religione che professano – è di essere a loro volta laici, ossia di non pretendere che la convivenza civile venga regolata secondo le tradizioni, le norme, le prassi, della propria fede. Il che non significa ovviamente rinunciare ad essa, anche se può significare dover abbandonare alcune pratiche incompatibili con lo Stato laico.
Chiedo, per esempio, che le comunità religiose non si mettano di traverso quando si tratta di promulgare leggi che estendono i diritti civili, che non ostacolino l’applicazione di leggi dello Stato laico (come la 194), che non avanzino pretese assurde come l’introduzione del creazionismo nelle scuole (come in passato accaduto negli Usa), che non intralcino una seria educazione sessuale, che facciano sperperare soldi pubblici per fantomatici telefoni anti-gender. E ancora: che riconoscano senza se e senza ma la legislazione dello Stato in tutti gli ambiti, compreso (e anzi soprattutto) il diritto di famiglia, che si rifiutino di far ricorso a tribunali della sharia o di qualunque altra forma di giurisdizione parallela, che riconoscano pienamente e senza il minimo margine di incertezza la perfetta parità di uomo e donna, che rispettino l’autonomia, anche religiosa, delle bambine e dei bambini. Che non chiedano piscine separate, che non vietino ai medici maschi di visitare una donna. Che non impediscano alle bambine di avere una vita sociale come i bambini. Che non impongano a nessuno come deve vestirsi. E che magari, oltre a ritrovarsi in una chiesa, si ritrovino davanti ai parlamenti, con in mano le Costituzioni civili dei paesi in cui vivono per proclamarne la “sacralità”.
Mi rendo perfettamente conto che alcune di queste richieste contrastano con alcuni precetti di diverse religioni ma la domanda è: sono le religioni che devono adeguarsi allo Stato laico o viceversa? Questa è la “guerra” in corso, ed è una guerra che non si combatte solo contro i terroristi, ma contro tutti i fondamentalisti di tutte le religioni che pretendono di farci fare passi indietro di secoli rinunciando al percorso di emancipazione che, con fatica, abbiamo fatto fin qui e che è ancora lungi dall’essere completato.
Cinzia Sciuto – animabella