Maestro Monicelli: l’ultima lezione

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L’ha fatto. Ha varcato quella soglia alla quale i più non hanno neanche il coraggio di pensare. Ha preso la rincorsa e si è lanciato fuori dall’esistenza. Mario Monicelli si è ucciso precipitandosi dal quinto piano dell’ospedale romano dove era ricoverato da qualche giorno per un tumore.

Nella notte, le notizie sul web si rincorrono. Increduli, si apprende che a 95 anni ci si può ancora suicidare e, inaspettatamente, ci si sente sollevati: il Maestro non è morto stanco, inebetito dalla senilità o sconfitto da una malattia che a poco a poco ti cancella la mente e ti priva del bene più prezioso: l’identità irripetibile del tuo essere unico.

Non conosciamo gli intimi motivi che l’hanno spinto ad accomiatarsi dalla comunità dei viventi e a entrare d’un balzo nell’empireo della memoria di una nazione; a pensarci ora, però, si comprende come il gesto compiuto sia in perfetta armonia con tutto il suo modo di stare al mondo, e che sarebbe un torto immane al suo genio giudicare la sua uscita di scena come un cedimento alla debolezza, alla resa o alla disperazione.

Solo chi spera, può morire disperato; e lui lo aveva detto a chiare lettere: «La speranza è una brutta parola, non la si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni, da quelli che dicono di stare buoni, stare zitti: pregate, che avrete la vostra ricompensa e il vostro riscatto nell’Aldilà. Andate a casa, state buoni, abbiate speranza».

A 95 anni, Monicelli aveva l’integrità morale, la passione intellettuale e la grinta forsennata di un ragazzo non ancora violato dal compromesso, dalla fascinazione delle comodità, dalle lusinghe del quieto vivere.

La sua carriera artistica ha regalato all’Italia (e al mondo intero) un’infinita serie di specchi in cui guardarsi; la sua filmografia è costellata di successi indimenticabili: riflessi spesso scomodi, irritanti, in cui avremmo forse preferito non guardare per non vedere la deformità di quell’immagine. Ma cinico, contrariamente a quanto i commentatori improvvisati affermano, non lo è mai stato; cinici erano i personaggi cui ha affidato la narrazione di questo Paese, con la sua piccineria, la sua ignavia mentale, la sua insana aspirazione alla schiavitù e alla dipendenza da un padrone, secolare o ecclesiastico, che gli dica cosa fare, come pensare, cosa sia bene e cosa sia male. Lui, il Maestro, era invece pieno di compassione nel senso etimologico e alto del termine: sentire insieme; e sentiva soprattutto insieme ai giovani, ponti tesi su un futuro migliore, a fianco dei quali ha combattuto negli ultimi anni tutte le battaglie. Sempre in prima linea sui palchi di ogni manifestazione, per i giovani ha avuto sempre e solo parole di incoraggiamento alla lotta, alla resistenza, alla fiducia (che è cosa ben diversa dalla speranza), e alla rivolta, anche violenta se necessario. Per il viscidume di tanta parte dell’attuale classe politica, invece, che sguazza nel pantano morale e nella pochezza intellettuale in cui ha trascinato la bella Italia, terra di arte e cultura, ha avuto parole sprezzanti, che pochi hanno avuto la coerenza di pronunciare.

Dall’alto della sua statura di intellettuale laico e disincantato, mai commiserevole neppure con sé stesso, il Maestro Mario Monicelli ha deciso da sé quando era ora di andarsene, e lo ha fatto in modo teatrale, inequivocabile, definitivo, tirando un altro schiaffo, l’ultimo, sul volto protervo del potere, che vorrebbe imporci non solo come vivere, ma anche come morire.

Alessandra Maiorino – Cronache Laiche

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