La giornalista Irene Zerbini, italiana emigrata in Canada ci ha raccontato oggi pomeriggio, al convegno “Globalizzazione linguistica”, tenuto a Roma in via Poli 19 e promosso dall’Esperanto Radicala Asocio, come funziona il multiculturalismo canadese.
Le politiche canadesi mirano alla massima integrazione possibile dei nuovi immigrati e cercano di valorizzare le differenze culturali, non impongono la rinuncia alla propria identità “etnica” come prerequisito per divenire parte della comunità canadese.
A livello linguistico – di questo si parlava al convegno – l’approccio si traduce in massicci investimenti pubblici per garantire, ad esempio, l’insegnamento di oltre cento lingue o l’esistenza di radio finanziate con denari pubblici che trasmettono programmi in tutte le lingue presenti in Canada.
La politica d’integrazione sembrerebbe funzionare, visto che non emerge una criminalità alimentata dall’emarginazione etnica e già dalla prima generazione gli immigrati divengono membri attivi della società ospite. Si può divenire cittadini in appena due anni, come ha fatto la Zerbini stessa, e considerateche il capo delle Giubbe Rosse, la prestigiosa polizia canadese, fino a poco fa era un tizio che si chiama Giuliano Zaccardelli: non un “discendente” di italiani, ma un tizio nato in provincia dell’Aquila e emigrato in Canada con i genitori a sei anni!
Non intendevo riportare queste notizie per tessere un elogio della politica d’integrazione multiculturalista canadese, quanto per segnalare come abbia un necessario corollario anche in campo religioso, dando sostanza alla particolare declinazione canadese della laicità.
La scelta multiculturalista reagisce sulla libertà religiosa e sul principio di neutralità statale in materia religiosa, dando esiti strani, per noi europei: si può dire, in estrema sintesi, che il Canada si considera più pluralista che laico.
Prima di criticare quest’approccio, però, teniamo conto che, lungi dal potenziare le pretese clericali dei vari credi, può giungere a determinare un’inattesa ingerenza dei giudici statali in questioni religiose, se questo serve a garantire valori ineludibili.
Penso ad esempio alla recente e molto criticata sentenza della Corte suprema canadese che ha risolto il caso Bruker vs. Marcovitz, imponendo al marito il compimento di un atto religioso (il ripudio rabbinico) per garantire la medesima eguaglianza uomo donna fra i cittadini appartenenti a tutte le fedi presenti in Canada.
Non abbiamo né il tempo né l’obiettivo di segnalare i limiti di questa linea.
Ci preme solo mostrare come la questione laicità sia uno degli aspetti di quella più generale concernente l’integrazione di culture diverse in una società pluralista, che oggi più che mai richiede sapienza politica e giuridica, consapevolezza dei principi e capacità di saperli calare in una realtà nuova, se non si vuole provocare il suicidio delle società democratiche.
Sicuramente servono analisi “sottili”, non improvvisazioni da sprovveduto, come quelle sentite pronunciare da un tale che, pochi giorni fa, ha sostenuto che problemi posti dal rapporto Stato/religione si risolvono con l’appello alla tradizione.
Massimiliano Bardani