Dopo anni di lotte intestine sui diritti civili, che hanno visto i discendenti della Margherita accapigliarsi con quelli dei Ds o, nel caso migliore, abbracciare pubblicamente tesi contrastanti come se non facessero parte di un unico partito, dopo anni di mediazioni tra moderati e sinistrorsi a tentare una sintesi tra posizioni incompatibili mandando a ramengo anche le poche flebili proposte che riuscivano a uscire da un calderone mal assortito, il Pd pubblica il “Documento per una nuova cultura politica dei Diritti”, redatto da una commissione presieduta da Rosy Bindi.
Otto pagine – otto! – di belle parole e vaghe enunciazioni di principio: no alla violenza e alle discriminazioni, sì al riconoscimento della dignità della persona, auspicio allo sviluppo delle «capacità di dialogo e di intesa» e alla «distinzione tra il piano delle visioni etiche e culturali, il piano delle decisioni politiche e il piano delle scelte legislative, del diritto e dell’esperienza giuridica». Tutto bello, tutto giusto pur rimanendo nella sfera delle sole chiacchiere. Ma poi, impercettibili ma neanche tanto, sparsi un po’ qui e un po’ lì, emergono riferimenti che accendono la lampadina della diffidenza e fanno capire che il documento non è tutto fumo e niente arrosto. Qualche pezzetto di arrosto c’è, e non va certo nella direzione che ci si potrebbe augurare.
Iniziamo con il riferimento ai «temi eticamente sensibili», parafrasi – cattolica – che vuol dire tutto e niente se non opportunamente declinata (e il documento naturalmente non lo fa). Quali sarebbero questi temi? E poi, «sensibili» per chi? In ogni caso su questi argomenti non meglio definiti (aborto? Testamento biologico? Eutanasia?) che si appellano alla coscienza, «va fatto ogni sforzo per raggiungere la massima convergenza». Non si capisce se all’interno del Pd stesso o nell’ambito del parlamento, e la differenza non è proprio un “di cui”. E mentre si continua a parlare di tutto e di niente cade come un inequivocabile macigno la frase: «Dove, infine, inderogabili ragioni di coscienza, seriamente motivate, dovessero costringere ad assumere posizioni differenziate, tali scelte devono comunque trovare rispetto e possibilità di espressione». L’obiezione di coscienza per i medici (e magari anche per i farmacisti “seriamente motivati”) aleggia come un fantasma, ma guai a citarla: in tutto il documento non se ne fa menzione. E anzi, laddove si citano le donne si preferisce parlare solo di violenza sessuale e discriminazione mentre non una parola viene spesa per gli attacchi sempre più virulenti alle legge 194 sull’interruzione di gravidanza, per il dilagare dell’obiezione di coscienza negli ospedali che rende impossibile la stessa applicazione della legge, per la demonizzazione dell’aborto e finanche della contraccezione di emergenza, per il ruolo dei consultori. In sostanza, nessun accenno al diritto della donna di autodeterminare la propria maternità.
Andando avanti, un guizzo di speranza si accende quando si legge che «la lotta contro la disuguaglianza deve accompagnarsi al riconoscimento della differenza, in particolare di quella di genere». Ma l’entusiasmo decade immediatamente alle righe che seguono. La «differenza di genere», per la commissione del Pd, riguarda unicamente le donne. Le diverse sono solo loro, e non gli omosessuali, i bisessuali, i transessuali e tutto quel mondo recepito ancor più diverso delle donne stesse. Su di esso solo un fuggevole accenno quando si parla di riconoscere «legami differenti da quelli matrimoniali», ai quali gli esperti del Pd aggiungono, bontà loro, «ivi comprese le unioni omosessuali». Come e in quale forma è chiedere troppo. Forse il massimo, su questo tema, il documento lo dà quando prima di un tedioso panegirico socio-storico-culturale definisce la famiglia come «primaria» tra le forme sociali. A quale famiglia si faccia riferimento, anche qui, non è dato sapere, ma emerge con chiarezza che questa “famiglia primaria” è ben diversa dalle altre «forme di convivenza».
Ma ecco arrivare la stoccata sull’autodeterminazione della persona (già abbiamo detto che quella della donna non viene neanche accennata) in materia di fine vita: «Il convincimento libero e la volontà individuale di chi è curato non debbono subire prevaricazioni o pregiudizi; mentre va assicurato il diritto ed il dovere del medico di non impartire al paziente stesso, il quale pure solleciti o acconsenta, trattamenti finalizzati a sopprimere la vita, tenendo sempre fermo il principio che l’ultima parola sull’intrapresa dei trattamenti e sulla loro prosecuzione è di chi li sopporta». Frase più brillante per dire tutto e il suo contrario non la si poteva davvero trovare: il medico non può dare la morte neanche su richiesta del paziente, al quale però spetta l’ultima parola. Neanche Veltroni avrebbe saputo esprimerlo meglio.
In sintesi: proposte zero, imbarazzante ambiguità sui diritti concreti, quelli che dovrebbero essere definiti al netto delle belle chiacchiere di uguaglianza e non discriminazione, inaccettabile silenzio sui temi caldi che infiammano i cittadini laici e bloccano il Paese al di sotto della soglia della civiltà. Quanto basta a far capire che il Pd non ha fatto un solo passo in avanti da quella confusione originaria derivante dall’aver compresso in un unico contenitore ex comunisti ed ex democristiani, che tirano la manica chi verso la sinistra radicale chi verso il centro crociato di Casini. Il documento sui diritti, ancora una volta, lascia aperte entrambe le strade. Non si dica che il Pd abbia scelto, finalmente, cosa farà da grande.