Vera Pegna sul manifesto del 29/11/2009
Nell'indifferenza generale, il 1° dicembre entra in vigore il Trattato
di Lisbona. Dire che è stata un'operazione di vertice è dire poco. Che
la si sia voluta tale, lo ha confermato Giuliano Amato secondo il quale
i capi dell'Ue avevano «deciso» di rendere il nuovo trattato
«illeggibile» per evitare che le riforme chiave fossero riconosciute ad
una prima lettura e magari seguite da proposte di referendum nei
singoli stati membri.
C'è chi invece indifferente non è stato ma anzi ha aspettato con
trepidazione l'ultima firma necessaria al completamento della ratifica
del trattato apposta dal ceco Vaclav Klaus. Senza quella firma, senza
l'entrata in vigore del Trattato, l'attività tenace svolta dalla Santa
Sede per assurgere a un riconoscimento istituzionale da parte dell'Ue
avrebbe potuto essere annullata da futuri dirigenti dell'Unione, meno
propensi a cedere alle pressioni vaticane.
Nel 1996 il Consiglio europeo di Torino aveva respinto la richiesta della Comece (Commissione dei vescovi europei) di riconoscere un ruolo pubblico alle chiese con la motivazione che la Santa Sede non era uno stato membro dell'Unione. Né poteva diventarlo dato che – unico stato in Europa – questa non è firmataria della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Ciò nonostante, negli ultimi otto anni, da quando fu messa mano alla elaborazione del trattato costituzionale europeo, la richiesta delle gerarchie vaticane ha fatto grandi passi in avanti.
Insistendo sulla «morale naturale» e sui «valori universali» della dottrina cattolica e, soprattutto, mettendo i suoi servitori più fedeli nei posti chiave all'interno della Commissione, la Chiesa cattolica ha ottenuto ciò che le era stato rifiutato nel 1996, ovvero la menzione delle chiese in un documento legislativo europeo. Nel trattato di Amsterdam, nonostante le insistenze affinché lo status delle chiese fosse accolto nel corpo del testo, il Vaticano ottenne solo una dichiarazione aggiuntiva annessa al Trattato. Invece, ecco che qualche anno dopo, nella bozza del Trattato costituzionale europeo, appare un articolo sullo status delle chiese, questa volta all'interno del trattato stesso, nonostante un folto gruppo di parlamentari, fra cui gli italiani Lamberto Dini e Elena Paciotti, ne avessero chiesto la soppressione per vari motivi ma soprattutto perché l'Unione non ha, e la Convenzione non ricerca, una competenza nel settore della teologia o della filosofia.
La tattica seguita dalle gerarchie cattoliche per arrivare a tanto è stata duplice: chiedere due cose per ottenerne una e alzare un gran polverone su quella rinunciabile – la menzione delle radici cristiane – in modo da far passare quella irrinunciabile contenuta nell'art. 17 del nuovo trattato, difficile da far ingoiare ad una popolazione secolarizzata come quella europea.
L'articolo 17 rassicura il Vaticano circa tre obiettivi prioritari. Primo: il riconoscimento della dimensione istituzionale della libertà religiosa. Secondo il Vaticano, la dimensione religiosa si estende a tutto ciò che riguarda l'essere umano e siccome la chiesa si proclama «esperta in umanità» è giusto che le sia riconosciuto uno status specifico, diverso da quello attribuito alle associazioni della società civile. Secondo: la facoltà per le chiese di intervenire su quei progetti di legge europei considerati di loro competenza prima che tali progetti arrivino in aula. Con ciò la chiesa cattolica, ente privato i cui rappresentanti non sono eletti dai propri fedeli, entra a far parte del processo legislativo europeo provocando un duplice danno: la delegittimazione del parlamento, poiché i membri eletti non bastano più a rappresentare le istanze degli elettori e l'inquinamento del sistema di democrazia rappresentativa, pilastro dello stato di diritto.
Terzo: l'esenzione da quelle leggi e normative europee che sono in contrasto con la dottrina morale cattolica. Ciò riguarda in particolare la facoltà per le organizzazioni cattoliche che gestiscono servizi pubblici quali scuole, ospedali, ecc. di discriminare i propri dipendenti in base alla loro religione e scelte di vita. È ciò che accade già in Italia per gli insegnanti di religione la cui assunzione o permanenza in servizio possono essere bocciate dalla diocesi di appartenenza qualora questa consideri che non si attengono alla morale cattolica.
Per Papa Benedetto XVI l'articolo 17 garantisce i «diritti istituzionali» delle chiese. Che cosa ne pensano i nostri rappresentanti che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona non ci è dato sapere.