Recenti interventi sul fenomeno del relativismo hanno dimostrato con rigore l’inconsistenza delle basi teoriche del fenomeno – almeno nella sua declinazione post-moderna – giungendo alla conclusione che possa essere liquidato e abbandonato con tranquillità cosi come è successo per altre ipotesi mitiche che nel corso dei secoli hanno puntellato una malferma conoscenza del mondo.
Occorre però cautela nell’affermare che il relativismo, pur con l’inconsistenza del “flogisto” e del “basilisco”, ne condivida il destino di un rapido oblio. Al pari di queste due entità metafisiche, il relativismo è
forse destinato a essere superato e a divenire un ricordo, ma al momento non è altrettanto innocuo ed evanescente, trattandosi di un modo di pensare ben radicato nelle nostre società e, in certe sue forme deteriori, addirittura dilagante.
L’idea di relativismo, nato come filosofia, si è trasformato nei secoli in un approccio metodologico etnico-antropologico che ha investito le più diverse discipline: dall’etica alla politica, dalla società ai diritti umani. Nella sua forma più strettamente “culturale” nasce nel campo delle discipline etnologiche e come approccio allo studio delle culture non occidentali, compendiandosi nel princi
pio che tutti i popoli e le culture meritano il nostro rispetto poiché sono espressione delle tradizioni e dei valori di un gruppo. In tal modo ogni società ha i suoi valori, il suo equilibrio ed è giusto che sia rispettata. In quest’affermazione si ritrovano i principi di tolleranza nati dall’Illuminismo che propone l’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto titolari degli stessi diritti. La forte impostazione relativista che assunse l’antropologia culturale ebbe il merito di restituire dignità a molte culture extraeuropee, cancellando le graduatorie di arretratezza stilate dall’occidente progredito.
Ma l’antropologia culturale partorì anche Margaret Mead, le isole felici dell’oceano Pacifico e il successo di un binomio di idee errate che influenzò la cultura dei decenni successivi: in primo luogo
l’idealizzazione rousseauiana e romantica delle comunità preletterate e in secondo luogo la convinzione che la mente dell’uomo è libera da influenze biologiche, essendo interamente plasmata fin dall’infanzia da fattori storici e ambientali. I miti del “buon selvaggio” e della “tabula rasa” finirono in un tripudio di esaltazione su tutti giornali, anche perché la premessa che l’uomo fosse plasmato dalla società e dalla cultura si sovrapponeva perfettamente all’ideologia marxista e antiliberista che contemporaneamente si diffondeva in occidente nell’ambito delle élites culturali.
In epoca successiva l’approccio relativista, uscito dalle aule dell’Università e dagli inserti culturali dei giornali, si diffuse rapidamente anche nella cultura popolare influenzando i comportamenti individuali e collettivi, tanto da ispirare un vera e propria etica. Il fenomeno della morale individualista oggi dilagante si basa sulla premessa che ogni opinione o convinzione personale è degna di rispetto come tutte le altre e dei propri comportamenti ognuno deve rispondere solo a se stesso. Ne consegue che ognuno ha diritto a non essere minimamente criticato perché la sua opinione e il suo agire hanno piena dignità qualunque esse siano. Da qui, è facile il passaggio all’affermazione successiva che sembra ormai la filosofia di molti: “Faccio quello che mi pare senza render conto a nessuno.” “Non devo più provare vergogna per le mie azioni riprovevoli, perché tali non sono.” “Nessuno mi può giudicare, né io tantomeno nutro sensi di colpa.” “Se ho fatto quello che ho fatto, avevo i miei motivi.”
Ma questo non è relativismo dirà qualcuno. Sono d’accordo: questo non è relativismo ma nichilismo, anarchia collettiva, carnevale edonistico privo di qualunque riferimento se non il personale immediato tornaconto. Però non si può disconoscere che questa filosofia rozza e semplicistica che anima e giustifica uno stile di vita molto diffuso nella nostra cultura abbia fondamenta squisitamente relativistiche.
La chiave di lettura relativistica è stata adottata come chiave interpretativa universale del mondo e della società. Gli ambienti culturali di stampo umanistico-filosofico, se ne sono appropriati e l’hanno cucinata in tutte le salse applicandola alla società, alle culture, alla politica, all’etica collettiva.
Il successo di quest’approccio si spiega con diverse sue caratteristiche. Prima di tutto l’aspetto accattivante e apparentemente tollerante e pluralistico. E’ per una visione “olistica” (cioè globalistica) e spiritualista della persona umana. E’ per una visione svelta, semplice, veloce, giovanile, egualitaria della società. Se la cultura popolare vi ha riconosciuto un alibi per i propri comportamenti, le élites culturali l’hanno utilizzata come nuova chiave di critica sociale e politica. I circoli liberal americani hanno incluso tutte le declinazioni relativistiche nel “Libro d’Oro del Politicamente Corretto”, divenuto rapidamente la nuova Bibbia per molti intellettuali.
Un altro elemento di successo si trova nel fatto che la cultura umanistica, sempre alla ricerca di vittorie nella storica battaglia contro la cultura scientifica, abbia visto nel relativismo lo strumento per tentare una spiegazione dell’uomo e della società, una spiegazione che, dopo gli insuccessi e le illusioni, anche tragici, del passato, fornisse finalmente un’interpretazione totale e definitiva del mondo. Né è azzardato pensare all’esistenza di un senso d’inferiorità nei confronti della cultura scientifica, anch’essa alla ricerca di una “teoria del tutto” che spieghi il mondo fisico con una sola formula omnicomprensiva. La mentalità scientifica è però consapevole che una simile formula non esiste e si accontenta di elaborare chiavi interpretative settoriali, non globali ma altrettanto potenti, che spiegano la biologia con una lettura evoluzionistica o la fisica con la teoria unificata delle forze.
Nella storia del relativismo si trova la conferma di come molte idee, interpretazioni, approcci nascono in un contesto dove sono correttamente utilizzati, mantenendo logica e coerenza, ma poi, traslati in altri campi e discipline e a questi adattati, spesso forzatamente, danno luogo alla loro caricatura. Il relativismo, da principio interpretativo della realtà, prudente, possibilista e, in fondo, democratico e tollerante, si è trasformato in uno strumento globale d’interpretazione del mondo con implicazioni assurde.
Ma se i suoi molti eccessi suscitano perplessità, le sue radici meritano comunque attenzione e rispetto.
Dagoberto Frattaroli