Silvio Berlusconi lascia la vita politica per «amore». Lo stesso «amore» che 18 anni fa, a suo dire, lo aveva fatto “scendere in campo”. E il suo, secondo i colleghi di partito, è un gran gesto di «generosità». Per «amore» sono state ammazzate solo nel 2012 cento donne, una ogni due giorni. I pro life sostengono la «vita», al contrario di chi difende i diritti delle donne ossia, seguendo questa logica, la morte. L’aborto è l’«omicidio» di un «bambino», la fecondazione si chiama «procreazione» a sottolineare la volontà divina, gli embrioni in sovrannumero, quelli cioè crioconservati prima dell’entrata in vigore della legge 40 sulla fecondazione assistita, sono definiti «abbandonati» al punto che qualche parlamentare ha chiesto per loro la possibilità di «adozione».
I giovani d’oggi, plurilaureati e specializzati, sono «schizzinosi» o meglio «choosy» (vuoi mettere dirlo in inglese?) se ambiscono a un posto di lavoro adeguato alla loro formazione. I genitori cattolici reclamano «libertà di scelta» per poter mandare i loro figli nelle scuole private così come il papa rivendica la «libertà religiosa» per la Chiesa. Sembrerebbe che in Italia siano negate entrambe.
Se ciò non basta per descrivere i quotidiani abusi linguistici del Bel Paese, possiamo ripescare nel nostro passato prossimo – o l’abbiamo già dimenticato? – per trovarci di fronte altre appropriazioni indebite quali «papi», detto da una diciottenne a un settantenne che non è suo padre, «benefattore» sulla bocca di ragazze ben remunerate per partecipare ai festini presidenziali a luci rosse, «magistratura comunista» per indicare i giudici che fanno il loro lavoro, «perseguitato» per intendere un uomo condannato dopo regolare processo, «missione di pace» a significare un’occupazione militare.
Il linguaggio non si limita a descrivere la realtà, ma la forgia. Le parole creano i fatti, caratterizzano le relazioni e le classificano all’interno di un senso comune mai scritto ma ritenuto regola implicita e condivisa. Forse è il caso di fare un po’ di pulizia. Perché le parole violentate da politici, giornalisti, affaristi e a ruota gente comune tornino ad avere il loro significato; per non vergognarci più di pronunciarle; perché ancora crediamo che l’amore non sia calcolo politico o patologia del possesso, che la libertà non coincida con una richiesta di finanziamento né con l’imposizione agli altri del proprio pensiero, che un embrione non sia un bambino, che l’aggettivo schizzinosodescriva qualcuno dai gusti particolarmente difficili e non un ragazzo che aspira a fare il lavoro per il quale ha studiato, che la generositànon sottenda un imbroglio, che la pace non si faccia con le armi.
E perché non ci sia più qualcuno che approfitti della mistificazione per spennellare di decenza l’indecente, soffocando ab origine ogni forma di sana indignazione.
Cecilia Calamani –Cronache Laiche