Sono passati 16 anni da quando l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, con la legge 62 del 10 marzo 2000, definì i criteri per la parità tra scuola privata e scuola pubblica e battezzò l’insieme delle due “Sistema nazionale di istruzione”. In sostanza, una scuola privata per essere “paritaria” – e quindi poter rilasciare titoli di studio legali – deve rispettare norme e ordinamenti vigenti su offerta formativa e organi collegiali, accettare tutte le richieste di iscrizione senza discriminazioni e assumere docenti in possesso di abilitazione all’insegnamento. Qualora poi non ci siano fini di lucro, l’istituto accede ai finanziamenti pubblici stanziati annualmente, una cifra che si aggira intorno ai 500 milioni di euro l’anno. La dicitura «senza oneri per lo Stato» con la quale la nostra Costituzione all’articolo 33 autorizza l’istituzione di scuole private non ha, evidentemente, preoccupato il legislatore. Nulla invece viene stabilito sull’orientamento culturale e l’indirizzo didattico, anzi la stessa legge 62 garantisce agli istituti paritari «piena libertà». Motivo per cui quelli confessionali, che naturalmente hanno (e danno agli studenti) un preciso orientamento ideologico, fanno parte a pieno titolo del sistema.
Dall’entrata in vigore della legge le polemiche non sono mancate e riaffiorano ogni anno quando il governo si appresta ad approvare la legge di Stabilità, il mezzo deputato per lo stanziamento dei fondi agli istituti privati. In particolare, le varie associazioni che parlano a nome delle scuole paritarie rivendicano la totale equiparazione economica con gli istituti statali nel nome del principio di “libertà di scelta educativa” dei genitori. A sentir loro, le scuole paritarie non solo svolgono un servizio pubblico, ma consentono allo Stato di risparmiare una cifra che si aggira intorno ai sei miliardi di euro ogni anno anno (dossier 2012 dell’Associazione genitori scuole cattoliche). La realtà, a ben vedere, è molto diversa dagli slogan.
Le scuole paritarie non svolgono un servizio pubblico
Va da sé che un servizio è pubblico se è aperto a tutti. L’accesso all’istruzione paritaria è condizionato da due fattori, di cui il primo e più evidente è di ordine economico e consiste nel pagamento di una retta che è tanto più alta quanto più l’istituto è prestigioso. Il secondo fattore è di tipo ideologico. Il 63 per cento delle 13.625 scuole paritarie sul territorio nazionale (dati dell’anno scolastico 2013/2014) è costituito da istituti cattolici e la percentuale sale se si escludono dal conteggio le scuole secondarie di secondo grado (solo 1710), in prevalenza laiche. Appare retorico chiedersi a quale tipologia di utenza siano rivolti tali istituti e come vengano selezionati i docenti. L’insegnamento in mano a una confessione religiosa, qualsiasi essa sia, non è libero e non è per tutti, non ci sarebbe neanche bisogno di rimarcarlo.
Ma c’è un altro aspetto che merita attenzione. La legge 62, all’articolo 6, stabilisce che il ministero dell’Istruzione «accerta l’originario possesso e la permanenza dei requisiti per il riconoscimento della parità». Il che significa vigilare costantemente sul rispetto delle regole organizzative e didattiche ma anche sui titoli e sui contratti di assunzione dei docenti. Regola che vale sulla carta ma non nella realtà. E forse non è un caso che le indagini triennali Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment) dipingono la scuola paritaria come una zavorra, dal punto di vista della preparazione degli studenti, del sistema di istruzione nazionale.
Perciò, anche escludendo un costo di accesso non sostenibile da tutti i cittadini, come può dirsi “pubblico” un servizio gestito da privati negli aspetti didattici, culturali e amministrativi senza controlli da parte dello Stato?
Conti de iure, conti de facto
Oltre ai circa 500 milioni di euro stanziati ogni anno dalla legge di Stabilità, gli istituti si avvalgono di finanziamenti regionali, provinciali e comunali che l’inchiesta “I costi della Chiesa” dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti stima in almeno 800 milioni di euro per le sole scuole cattoliche. C’è poi, sempre per queste ultime, l’esenzione dal pagamento delle tasse sugli immobili. L’ambigua questione Ici-Imu, venuta alla ribalta lo scorso anno quando una sentenza di Cassazione – anche in virtù del richiamo Ue sugli indebiti aiuti di Stato alla Chiesa – ha imposto il pagamento dell’Ici a due scuole cattoliche di Livorno, è stata considerata superata dallo stesso ministro dell’Economia Padoan, il quale ha ribadito che «la controversia non riguarda l’Imu», dal quale le scuole paritarie senza fini di lucro sono esenti. Questione chiusa, dunque: gli istituti cattolici continueranno a non pagare tasse sugli immobili, il che aumenta di qualche altro centinaio di milioni di euro la posta. Arriviamo così a un esborso pubblico di almeno un miliardo e mezzo di euro l’anno, che riduce sensibilmente i presunti sei miliardi di euro che lo Stato risparmierebbe ogni anno grazie all’istruzione privata.
Ma per arrivare a dire che il calcolo dei sostenitori della scuola paritaria è senza fondamento occorre qualche altra considerazione. La prima è che i costi non sostenuti direttamente dallo Stato per gli studenti delle paritarie sono a carico delle famiglie, e sempre di denaro “pubblico” si tratta. La seconda è che un oggettivo aggravio per la collettività si verificherebbe solo se tutti gli studenti della scuola paritaria (circa un milione contro i nove milioni della pubblica) si trasferissero in blocco nella scuola statale. Anche ammettendo questa assurda possibilità, è difficile pensare che tale aggravio supererebbe il miliardo e mezzo di euro stanziati tutti gli anni. Quanti docenti possono essere assunti con questa cifra? E quanti edifici possono essere costruiti o riconvertiti in scuole? Per tacere sull’iniezione vitale che la scuola statale, martoriata da decenni di tagli, riceverebbe se solo le venissero destinati questi fondi.
La libertà di scelta educativa
Un’ultima osservazione merita il falso problema della libertà di scelta educativa. Se lo Stato non finanzia (maggiormente) le scuole paritarie lede la libertà di quei genitori che non possono permettersi di mandare il figlio nella scuola che desiderano: questo il mantra delle associazioni cattoliche che ogni anno ci ronza nelle orecchie. A dargli vigore negli ultimi tempi, le pretestuose rimostranze contro fantomatiche “teorie gender” che sarebbero oggetto di insegnamento nella scuola pubblica (statale).
La questione è semplice. Lo Stato fornisce un’istruzione gratuita, libera e plurale – e quindi anche laica – a tutti gli studenti e i cittadini italiani la pagano con le proprie tasse. Nessuno vieta a un genitore di scegliere una scuola meglio orientata al suo sentire, ma non a spese della collettività. Che non dovrebbe pagare le pur legittime preferenze di pochi, ma solo i servizi destinati a tutti.
Cecilia M. Calamani – Cronache Laiche