Da quando ho deciso di appuntarmi gli episodi di sessismo quotidiano per poi discuterli in questa sorta di “rubrica” ho messo in piedi una lista considerevolmente lunga… Trattandosi di episodi tratti dalla mia esperienza personale, è possibile che qualcuno si riconosca in quello che racconto: spero però che nessuno se la prenda, queste righe non vogliono essere un dito puntato contro qualcuno, ma una sorta di autoanalisi collettiva spero utile perché ciascuno di noi si renda conto delle insidie nascoste talvolta nei dettagli.
Primo episodio. Ero in macchina con mio figlio, sei anni, pioveva leggermente. Incontrando alcune ragazze con l’ombrello, mio figlio esclama: “Oh, queste femmine che non vogliono bagnarsi!”. Come potete immaginare, sono rimasta di stucco. “Queste femmine” è la base di ogni sessismo, di ogni generalizzazione (esattamente come, simmetricamente, “questi maschi”), è un’espressione che noi non useremmo mai e non ho la minima idea di dove l’abbia potuta sentire (o meglio, un’idea ce l’ho ma non è rilevante). Nel momento stesso in cui mio figlio ha pronunciato quella frase, si è materializzato nella mia mente il meccanismo di formazione degli stereotipi. La generalizzazione e la chiusura degli individui in categorie è esattamente il primo passo. E dedurre dall’appartenenza a una categoria (quella delle femmine in questo caso) un comportamento (non vogliono bagnarsi) è il secondo. Anticipo subito che non accetto commenti del tipo “beh, però è un po’ vero che…”. Non me ne importa niente di discutere della eventuale più o meno parziale verità degli stereotipi. La pericolosità degli stereotipi di genere non sta nel fatto che siano necessariamente falsi, ma che preordinano il comportamento degli individui. Per cui chi non si adegua al comportamento previsto, è automaticamente escluso dalla categoria (una femmina diventa un “maschiaccio”, un maschio una “femminuccia”).
Secondo episodio. Cena con gli inquilini del palazzo dove viviamo a Francoforte. Sono presenti, oltre a noi, una coppia di quarantenni in attesa del loro primo figlio, una coppia di sessantenni con i figli ormai grandi e una donna quarantacinquenne felicemente single. A un certo punto della serata, mentre parlavamo dei nostri figli, il sessantenne chiede alla single: “e tu? Senza figli?”. Ora, a parte la totale mancanza di tatto visto che non è che si fosse proprio amici, mi sono subito chiesta: avrebbe mai fatto questa domanda se si fosse trattato di un uomo? Io credo proprio di no. È purtroppo ancora molto diffusa – anche in Germania, dove l’immagine dominante della donna è molto tradizionalista – che la realizzazione della donna sia necessariamente nella famiglia e una donna single, senza partner fisso e senza figli dopo i quarant’anni è spesso compatita se non addirittura giudicata.
Il terzo non è un episodio specifico ma un’osservazione più generale. Mi capita, ahimè, abbastanza spesso di confrontarmi obtorto collo su questi temi con amici/colleghi “intellettuali di sinistra” che generalmente tendono a minimizzare ricorrendo, anche se non esplicitamente, alla trita e ritrita distinzione marxiana fra struttura e sovrastruttura. Ossia, il sessismo c’è ma è una discriminazione diciamo di secondo grado che si innesta su quella di primo grado che è quella di classe (o comunque determinata da fattori socioeconomici). Per cui insomma, non è che avete torto, ma abbiamo cose più importanti di cui occuparci e vedrete che, risolte le disuguaglianze economiche, anche quelle di genere magicamente spariranno. Questo approccio sottovaluta enormemente le capacità creative originarie degli apparati culturali. Linguaggio, tradizioni, immaginario collettivo, simboli, religioni hanno una loro capacità autonoma di incidere nella storia e, sebbene non siano ovviamente indipendenti dalle variabili socioeconimiche, non ne sono neanche una mera emanazione. A voler essere maliziosa, spesso ho la sensazione che minimizzare il peso che i comportamenti quotidiani hanno nella costruzione delle relazioni e degli stereotipi di genere sia la via intellettuale al sessismo. “Compagni nella lotta, fascisti a letto” gridavano le vecchie femministe degli anni Settanta, proprio a sottolineare come anche nelle fila di coloro che lottavano contro le disuguaglianze sociali sulla base di una specifica formazione intellettuale e politica, i rapporti fra i generi erano ancora dominati da dinamiche patriarcali che non venivano messe in discussione. E ho la sensazione che quello slogan continui ad avere senso anche oggi.
Cinzia Sciuto – dal suo blog personale Animabella