Donald Trump ha spesso dichiarato di non essere interessato a voler iniziare una guerra contro l’Iran, eppure in una notte l’uccisione del generale iraniano Quassem Suleimani ha fatto pendere l’ago della bilancia verso l’esplosione di essa.
In men che non si dica ci siamo tutti ritrovati a cercare su Google dove si trovasse l’Iran, e non ci credo a chi dice di no, perché fino all’altro ieri per tutti noi l’Iran era solo uno dei tanti stati islamici che ogni tanto sentivamo al telegiornale.
Cominciamo a mettere i puntini sulle i, l’Iran, o anche Persia, è una Repubblica Islamica che si affaccia sul Golfo Persico. Fino al 1979 fu uno stato laico, di religione islamica, con un’ economia fiorente e una vita culturale vivace. Non c’erano donne velate, uomini barbuti ed esecuzioni in piazza. Nell’Aprile di quello stesso anno tutto cambiò, dopo una cruenta rivoluzione divenne una Repubblica islamica governata dai religiosi sciiti. Come in un brutto sogno quel paese in via di sviluppo si trovò catapultato in una sorta di Medioevo anacronistico e del tutto inconcepibile per noi occidentali. Le donne furono costrette a indossare il Burqa, i loro diritti vennero azzerati, non poterono più parlare in pubblico, le scuole iniziarono a insegnare il Corano e la Sharia prese il sopravvento su tutto. Nonostante alcuni movimenti di rivolta l’Iran continua a essere una Repubblica islamica , fatta di mille contraddizioni, di bellezze inespresse e di ricordi di un paese che non c’è più.
E’ in questo paese che nasce Shirin Neshat, una delle artiste contemporanee più stimolanti. Classe 1957, cresciuta in una piccola cittadina poco distante da Tehran; all’età di 17 anni si trasferisce negli Stati Uniti per frequentare l’Università della California di Berkeley, qui scopre il suo interesse per la fotografia che si evolverà in quello per la video-arte e per il cinema. Dopo la sua laurea si trasferisce a New York dove tutt’ora vive. In questi lunghi 13 anni la situazione politica iraniana le ha impedito di far ritorno nel suo paese.
E’ soltanto nel 1990 che riesce a far ritorno in Iran, ma quello che trova è un paese molto diverso da quello che ha lasciato e in una dichiarazione del 1997 dice : “… è stato una delle esperienze più sconvolgenti della mia vita. Quando tornai ogni cosa sembrava cambiata. Sembrava che ci fossero pochi colori. Tutto era bianco o nero. Tutte le donne indossavano il nero chador. Fu uno shock immediato”.
E’ da questo shock che ha inizio la sua riflessione sulle differenze tra la cultura occidentale, di cui ormai è figlia adottiva, e la cultura orientale-islamica, di cui è figlia legittima. La sua attenzione si focalizza soprattutto sull’identità della donna in Iran, sulle discriminazioni di genere e sul difficile rapporto uomo-donna.
Inizialmente è il mezzo fotografico che da forma alla sua ispirazione e tra il 1993 e il 1997 realizza “Woman of Allah”, una serie di fotografie in bianco e nero in cui vediamo l’artista o altre donne comuni vestite con il chador, con le parti del corpo scoperte (mani, piedi, viso, occhi) ricoperte di versi persiani di poetesse iraniane contemporanee che si ribellano agli stereotipi della donna islamica. Elemento interessante di queste opere sono le armi, che vengono rappresentate in ogni foto, come a volere evidenziare che la donna viene chiamata a imbracciare le armi in nome della rivoluzione. Questa è la vera novità della rivoluzione iraniana. Fino a quel momento la donna nella cultura islamica ha sempre avuto una dimensione privata, domestica, mai pubblica o politica, ora invece viene coinvolta in un cambiamento così importante, addirittura invitata a imbracciare le armi. Tra queste foto quelle più suggestive sono: “Seeking Martyrdom” e “Birtmark”. Nella prima l’artista si ritrae vestita con il chador e con un fucile tra le mani , un fucile che divide a metà la fotografia, e delle mani che lasciano il bianco e nero per colorarsi di rosso. Sullo sfondo troviamo una poesia persiana.
Nella seconda foto l’artista si ritrae con una mano davanti la bocca a sottolineare il silenzio in cui la donna islamica è costretta. Questa volta è sulla mano posta davanti la bocca che, come un decoro, scorrono i versi delle poetesse iraniane. Trovo estremamente evocativa la mano che da tappo (in quanto chiude la bocca) diventa una tela per esprimere opinione e comunicare con lo spettatore.
Piano piano Shirin Neshat si avvicina alla video-installazione come mezzo di comunicazione ed è cosi che nascono opere che raccontano storie comuni tra il quotidiano e il poetico, attraverso l’uso esclusivo di immagini e suoni. Anche qui il bianco e nero è scelto come forma di comunicazione , in quanto, secondo l ‘artista se si riprendono le persone a colori si immortalano i loro vestiti, mentre se si usa il bianco in nero si rappresenta la loro anima. Lei stessa afferma: “Ho iniziato a diventare davvero critica verso il regime e il mio lavoro è cambiato drasticamente. Sono passata dalla fotografia al video e al film. Volevo raccontare storie anche con il sonoro, la performance, il movimento».
Ed è così che nel 1998 realizza “Turbolent”,opera della durata di 10 minuti in cui l’artista affronta il tema del divieto della donna di esibirsi in pubblico. Lo schermo, diviso in due parti, mostra da un lato un uomo e dall’altro una donna in procinto di iniziare a esibirsi, fino a qui niente di strano; tutto prende una piega diversa quando ci si accorge che l’esibizione dell’uomo, viene accolto da un folto pubblico, mentre la donna canta davanti a una sala vuota. Inoltre l’uomo intona un canto armonioso mentre la donna da voce a un lamento ipnotico. L’opera, presentata alla Biennale di Venezia del 1999, vinse il primo premio internazionale.
Nel 1999 realizza” Soliloquy”, parlare tra sé e sé , questo è il senso di un’opera introspettiva in cui ancora una volta troviamo l’artista come protagonista. Il video è girato a Mardin, una cittadina turca non lontana dal confine iraniano, dove risiedono ribelli curdi e fondamentalisti islamici. Nell’opera è presente ancora una volta la contrapposizione tra due realtà, due donne così diverse ma anche simili: una vagabondeggia tra le rovine di bellissime architetture persiane fino a giungere davanti a una mosche; l’altra si trova a girovagare in una metropoli occidentale piena di colori e di frastuoni, fino a giungere davanti a una chiesa. Entrambe a un certo punto si trovano sole e la loro figura sembra sovrapporsi in un ‘unica immagine, in un ‘unica persona, da sola davanti a se stessa, ognuna costretta a interrogarsi sul suo essere donna in condizioni così diverse.
Negli anni Shirin Neshat ha continuato a interrogarsi sulla questione della donna nella cultura islamica, sulle discrepanze tra una cultura laica e una cultura fondamentalista, sul rapporto tra uomini e donne, sul velo, sulla forza delle donne e sulla repressione del desiderio sessuale in ogni sua forma.
Tra il 2014 e il 2015 ritorna all’immagine con l ‘opera “The Home of My Eyes”, una serie di 55 fotografie che ritraggono singole persone provenienti da varie parti dell’Azerbaijan, ognuna con radici diverse, con culture e fede diverse. Lo sfondo di ogni fotografia è anonimo e le persone hanno tutte la stessa posa: le mani rivolte verso il cuore che rappresenta il motore di ogni nostra azione. Inoltre ad ognuno di essi è stato chiesto di spiegare la propria idea di casa , di famiglia e le loro risposte, unite ai versi del poeta iraniano Nizami Ganjavi , sono state riportate a inchiostro sulle stampe.
Tutt’oggi la ricerca artistica di questa donna prosegue focalizzandosi sul concetto di identità femminile, di casa e di famiglia e lo fa in modo deciso ed elegante usando suoni, immagini, video e scrittura. Il suo continua ad essere un lavoro “personale, politico, emotivo” come lei stessa afferma.
Paola Samaritani