[attenzione spoiler]
Che Pupi Avati con l’horror ci sapesse fare è chiaro a chiunque abbia visto “La casa delle finestre che ridono”, indimenticabile cult del 1976 che insieme a “Profondo Rosso”, “Suspiria” di Dario Argento e “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci rappresentano il meglio della produzione horror italiana degli anni settanta.
Se il suo ritorno al genere con “Il nascondiglio” (2007) aveva lasciato un po’ perplessi, con questo “Il Signor Diavolo” invece colpisce nel segno e regala (come aveva già fatto Guadagnino lo scorso anno) una lezione di cinema in un momento in cui Hollywood ci sembra troppo concentrata nel proporre film horror con trame così scadenti che effetti speciali e “scene buh!” non possono mai compensare (lo diciamo attendendo il secondo capitolo di It con trepidazione).
Il film si svolge in un paesino della provincia di Venezia nel 1952 e fin dall’inizio emerge una voglia del regista di schierarsi con decisione contro quella cappa clericale che attanagliava la regione Veneto in quegli anni; nelle scene iniziali infatti un funzionario del ministero di giustizia, Furio Momentè, viene incaricato dal suo superiore di recarsi a Venezia per un omicidio terribile di un giovane, Emilio, in cui sembrerebbero coinvolte persone di chiesa, il suo esplicito compito è di fare in modo che nessuna persona di chiesa sia chiamata a testimoniare al processo. Possibilmente però recuperando i rapporti con la madre della vittima, Clara Vestri, che controlla molti voti per la DC e per De Gasperi in quella provincia.
Il giovane funzionario capisce fin da subito che il suo compito sarà durissimo, leggendo le carte delle testimonianze appare evidente che l’omicida Carlo Mongiorgi un coetaneo della vittima, è stato quanto meno fomentato dal sacrestano Gino che vede “Il Signor Diavolo” ovunque (“Signor” perché le persone cattive bisogna trattarla per bene). In più è chiaro che la Signora Vestri ci tiene a vendicarsi della superstizione instillata nel paesino dai preti e dai loro dogmi.
Pupi Avati è bravissimo a portare avanti il film lasciando sempre aperte sia l’ipotesi che tutto ciò che avviene sia colpa della superstizione sia che sia effettivamente tutta colpa del diavolo. Ovvero lascia aperta fino all’ultimo la interpretazione razionale che quella paranormale.
Il finale, che è diverso da quello dell’omonimo libro dello stesso Avati (“ce l’ho messo apposta per sorprendere anche chi avesse letto il libro” ha dichiarato il regista Bolognese in un intervista) non è a nostro giudizio né un finale aperto come hanno detto molti critici entusiasti, né un finale da spiegare, come hanno detto i critici meno entusiasti (“Un finale da spiegare è sempre un finale sbagliato” dice una vecchia regola mai scritta di letteratura e cinematografia).
Secondo noi è un finale che si può capire se e solo se si notano tutti i dettagli… e non diciamo di più perché anche gli spoiler hanno dei limiti.
J. Mnemonic