Tra dogma e ateismo i sogni dell’Uomo e della Vita

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dal blog di Luigi De Marchi

L'Uomo esprime i sogni della Vita ?

In un lungo articolo su "Repubblica" intitolato "In un mondo senza senso", Umberto Galimberti sembra candidarsi al titolo di super-laico duro e puro recensendo il recente libro d'un laico a suo parere molle e ambiguo: "Questioni di fede" di Peter Berger (Il Mulino, 2005).


In quel libro Berger, direttore del Centro di Studi
Religiosi e Inter-nazionali dell'Università di Boston, tenta di
dimostrare che anche da laici, anche da scettici, anche senza
sentirsi minimamente vincolati da nessuna autorità religiosa, si può
abbracciare il cristianesimo: e non in quelle modalità generiche di
recente con-dannate da papa Ratzinger, ma sottoscrivendo riga per
riga tutti gli articoli del "Cre-do" professato dai cristiani.
Secondo Berger, dunque, la fede oggi non può più essere data per
scontata perché la modernità, con le sue migrazioni, le sue
comunicazioni di massa, le sue mille con-traddizioni mina quella
forma di consenso sociale omogeneo che era il fondamento
dell'accettazione generalizzata e acritica d'una fede. Oggi la fede
bisogna dunque cercarla e sceglierla. Senonchè, quale che sia lo
strumento prescelto per cercare la fe-de (il magistero
ecclesiastico, o la lettura della Bibbia, o l'esperienza mistica),
anch'esso deve fare i conti con la critica corrosiva del moderno
pensiero filosofico e scientifico. Qual'è dunque, per Berger,
la "rocciosa realtà" su cui si fonda il ritorno alla fede
cristiana ? Essa sta nel fatto che, in ogni percorso di ricerca
religiosa, l'uomo trova da un lato il silenzio di Dio ma,
dall'altro, anche il proprio testardo e in-sormontabile bisogno di
significato. Insomma, scrive Berger, senza una realtà che trascende
quella ordinaria della vita quotidiana, non riusciamo a dare un
senso alla nostra vita e al mondo che ci circonda. E in ultima
analisi la religione – conclude – è lo strumento che dà significato
alla nostra vita".
Per quanto mi riguarda non condivido affatto la tesi di Berger, che
sembra tagliata su misura per la turba degli opportunisti che,
nell'America di Bush come nell'Italia di Ferrara, hanno scoperto le
gioie e i vantaggi della conversioni sulla via di Damasco e d'un
passaggio dal ruolo di mangiapreti a quello di baciapile. Ma
l'alternativa laica proposta da Galimberti mi sembra anche più
deprimente di quella suggerita da Ber-ger. Vediamola in breve.
Anzitutto Galimberti sostiene che il bisogno di significato sarebbe
solo il prodotto d'una cultura, quella giudaico-cristiana, di cui
siamo (volenti o nolenti) rampolli. E, ritenendosi evidentemente
superiore a certi bambocceschi bisogni, aggiunge: "In realtà devo
essere già religioso per pormi il problema del significato della
vita. Altrimenti, come nel mio caso, quel problema non mi passa
neanche per l'anticamera del cervello. La questione del senso della
vita e delle cose nasce infatti all'interno della tradizione
giudaico-cristiana". Francamente non capisco dove Galimberti abbia
trat-to questa sua conclusione apodittica. In realtà, la ricerca del
significato è un bisogno antico quanto l'uomo: e lo troviamo già
nella filosofia greca, di mezzo millennio an-teriore alla civiltà
cristiana, o nella religione buddista, del tutto indipendente dalla
cultura giudaico-cristiana, mentre la credenza in una vita
ultraterrena, come credo d'aver dimostrato nella mia opera "Lo shock
primario" (Edizioni Rai-Eri, 2002), è testimoniata addirittura nelle
sepolture neandertaliane di 80 o 100 mila anni fa. Ed uno dei
mmassimi psicologi di stampo umanistico, Viktor Frankl, lo aveva
chiaramente intuito quando scriveva già negli anni '50, in polemica
con Freud e Adler, che il bisogno essenziale dell'uomo non è il
bisogno di sesso o di potere ma il bisogno di significato.
Galimberti non sembra rendersi conto che il bisogno di significato
non nasce solo dal dolore, come egli dice, perché la storia stessa
di Buddha, un principe amato dal padre e dalla sua diletta sposa e
circondato solo di gioie che esce dal suo giardino in-cantato per
conoscere il mondo e cercare la sua verità, ci dice che quella
ricerca può nascere anche dalla felicità. E poi, come lo stesso
Buddha ci ha insegnato, il dolore è inseparabile dall'esistenza, se
non altro perché, come i miei studi sull'angoscia hanno dimostrato,
l'emersione della coscienza nel corso dell'evoluzione umana ha
portato l'uomo alla coscienza del proprio destino di morte ed alla
partecipazione disperata all'agonìa dei propri simili più amati:
cosicché tutte le religioni, e non solo quella giudaico-cristiana,
possono essere viste come altrettante formazioni reattivo-difensive
dinanzi all'angoscia della morte. Ma, non a caso, la religione
stessa, che Galimberti vede solo come lo strumento cruciale della
psiche umana per dare un sen-so alla vita, è risultata meno
prioritaria del bisogno di significato nella lotta dell'uomo contro
il suo malessere esistenziale. Fin dagli anni '50, infatti, le
ricerche di Herman Feifel sull'angoscia di morte tra i pazienti
terminali hanno rivelato che i credenti non erano meno angosciati
dei non credenti dinanzi alla morte incombente, mentre i pazienti di
gran lunga più sereni sono risultati gli uomini e le donne che sen-
tivano di aver vissuto una vita significativa o, detto altrimenti,
di essersi sostanzialmente realizzati. Dinanzi a queste realtà, il
sarcasmo con cui Galimberti tratta la ricerca umana di significato e
se ne proclama immune appare non un segnale di superiorità
intellettuale, ma solo di patetica aridità o rimozione. Del resto,
penso che la ra-gione centrale per cui il pensiero e la società
liberale sono approdati all'odierna crisi vada cercata proprio nel
fatto che hanno ridotto la libertà a consumismo, l'amore a banalità
sessuale e la speranza a scetticismo, senza saper rispondere a
questo centrale bisogno umano di significato.
Per parte mia, credo invece che, se le religioni dogmatiche
tradizionali appaiono spesso, alla mente dell'uomo moderno,
patetiche favolette consolatorie, la religiosità, come perforante
percezione e intuizione umana d'una forza che ci trascende e che dà
appunto un senso alla nostra vita, non sia affatto da considerare
illusoria. Se , come tutto sembra indicare, l'essere umano è la più
alta espressione dell'evoluzione vitale, non è assurdo pensare che i
sogni di Amore, Bellezza, Giustizia, Armonia, Immortali-tà,
Creatività e Compassione portati dall'uomo in un processo vitale
finora sottoposto al dominio di leggi crudeli e monotone, siano
anche i sogni della Vita e che noi siamo forse espressione del
tentativo della Vita di riorientare il suo corso. Insomma,
l'umanesimo liberale mi sembra trovare il suo significato
fondamentale in una sorta di religione dell'uomo, in una religiosità
che ci fa sentire e capire che siamo portatori d'una rivoluzione
cosmica e che è bello vivere e morire per i sogni dell'Uomo e della
Vita.

Luigi De Marchi

8 Maggio 2007   |   articoli   |   Tags: