Si dice che il battito d’ali di una farfalla che si trova in Australia possa scatenare un uragano in America.
Ovviamente è solo un’iperbole, che illustra però molto efficacemente quali enormi reazioni a catena si possano determinare con ogni parola, ogni piccolo gesto, ogni azione apparentemente innocua.
Figuriamoci cosa può accadere quando parole, gesti e comportamenti sono messi in atto non da persone sconosciute ma da amministratori dello Stato, da Parlamenti, da persone in vista, dai giornali, dai mezzi di comunicazione.
I pubblicitari conoscono bene il fenomeno, e sono disposti a pagare anche milioni di euro per far si che un divo particolarmente ammirato possa sorseggiare un determinato aperitivo o utilizzare un determinato gestore telefonico. Perché sanno che verrebbe inevitabilmente imitato, persino oltre le stesse intenzioni dei pubblicitari!
Recentemente, il parlamento italiano ha affossato una legge che doveva tutelare i gay dalle discriminazioni omofobiche. Nei giorni successivi, alcuni esaltati si sono sentiti in qualche modo stimolati a dare qualche coltellata a coppie di gay incontrate per caso, colpevoli solo di essere tali e di non nasconderlo.
Ecco un battito di ali che diventa uragano!
A chi dobbiamo la responsabilità politica, morale e psicologica di questi fatti?
I presidi che si sono rifiutati di applicare la sentenza della corte europea, fonte primaria di diritto al di sopra delle stesse costituzioni nazionali, non togliendo i crocifissi dalle aule scolastiche, ma addirittura appendendone provocatoriamente degli altri, comportandosi da ultras della curva sud anziché da dirigenti statali e soprattutto senza aprire alcun dibattito paritario, si sono giustificati affermando che il crocifisso non è un semplice simbolo religioso ma un emblema della cultura italana che una sentenza europea "non ci può togliere" (dunque, tra l’altro, le sentenze si rispettano solo se piacciono, altra pericolosa mina vagante data in pasto all’opinione pubblica in un Paese che ha inventato le mafie, tant’è che anche in Burundi "mafia" si dice in italiano).
Ora, a parte il fatto che la storia insegna che ogni qualvolta si associa religione e nazionalità, si creano conseguenze catastrofiche, nessuno dei tanti esperti saliti in cattedra a difendere l’integrità della Razza Italiana, Bianca, Cattolica e Crociata ha minimamente supposto che, nella effettiva percezione spicciola dei ragazzi abituati a configurare il proprio cervello con lo stile essenziale degli SMS, una delle tante orribili ma logiche conseguenze di questo sottile e strisciante razzismo istituzionale è senz’altro quella di dedurre, ad esempio, che un negro non può essere un vero italiano.
Tantomeno potranno esserlo gli islamici (figuriamoci: in qualche Comune del nord sono già apparsi cartelli stradali di "divieto di burqa"), oppure un immigrato di seconda generazione, o magari una qualsiasi persona che per ideologia, nazionalità, abbigliamento, inclinazioni, gusti, mode, pettinatura, alimentazione o altro possa distinguersi dal Modello Unico di Pensiero a cui questa orrenda forma di fascismo televisivo, malavitoso e clericale che ci governa vorrebbe conformarci tutti.
Luigi M Nicolai